Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 31 dicembre 2012

Brunero Gherardini. L'antropocentrismo della Gaudium et spes

Le pagine che seguono (185-195) sono tratte dal Libro: Brunero Gherardini, Il Vaticano II. Alle radici di un equivoco, Lindau 2012. Il tema è riproposto per approfondire la discussione suscitata dall'articolo La falsa accusa di eresia a chi critica le nuove ed ambigue dottrine del pastorale Vaticano II di Paolo Pasqualucci. Esso è utile per continuare ad approfondire il nostro percorso nei meandri dei documenti conciliari al fine di coglierne le luci e le ombre e non lasciarci sviare da alcuna acritica esaltazione.
[Qui e qui nostre precedenti riflessioni sulla Gaudium et Spes]

1. L'antropocentrismo della GS

Poiché il lemma è ricorrente, non si può continuar a parlare d'antropocentrismo senza darne prima una breve spiegazione. La quale, in estrema sintesi, potrebb'esser così formulata: l'antropocentrismo è la concezione che vede l'uomo al centro dell'universo, come valore di fondo e punto di confluenza di tutto ciò che esiste. Si tratta d'una concezione molto affine a quella di F. C. Schiller, che la fece dipendere dalla massima protagorea per la quale l'uomo è la misura di tutte le cose. È la massima dalla quale s'è ultimamente sviluppata una teoria filosofica, nota come Umanesimo (Troiano, Ferrari, Maritain). Essa assume l'uomo non solo come misura, ma anche come valore di fondo dell'intero universo, sul piano teoretico, dunque, prima che su quello apprezzativo. Maritain v'aggiunse la nota, del tutto insostenibile, d'una discrasia tra umanesimo ed incarnazione[4].

Non ho elementi per dire, e nemmeno per sospettare, che gli estensori di Gaudium et Spes ed i Padri conciliari, nel redigere discutere e votar un tale documento, avessero tutti la ferma intenzione d'ancorar il magistero conciliare alla detta teoria. Di fatto, però, la dipendenza è innegabile. Ancor prima d'esser innalzato ad altezze vertiginose, l'uomo è costituito come punto focale ed oggetto dell'intero documento: «È l'uomo dunque, e precisamente l'uomo integrale (et quidem unus et totus), nell'unità di corpo ed anima, di cuore e coscienza, d'intelletto e volontà, che sarà il cardine di tutta la post esposizione» (GS 3/a). L'affermata centralità dell'uomo, della sua realtà naturale, della sua dignità e della sua emergenza al di sopra d'ogni altra realtà creaturale; l'uomo nella si concretezza storica e nei suoi contesti sociali e culturali; l'uomo, quindi, con tutt'il cumulo della sua problematicità: ecco l'unico oggetto del più esteso documento conciliare l'unico punto d'appoggio - «cardo», cardine - di tutt'il suo contenuto.

Quando una tale problematicità vien confusa col concetto di mistero ed immersa in esso - «il mistero dell'uomo» -, la deriva antropocentrica si fa anche più evidente a danno del «mistero di Cristo» che dovrebbe illuminarla e risolverla: è detto, infatti, che «il mistero dell'uomo trova vera luce solamente nel mistero del Verbo incarnato» (22/a) e che la ragione profonda per la quale l'enigma uomo vien illuminato e risolto è il fatto stesso dell'incarnazione, con cui «il Figlio di Dio s'unì in certo qual modo ad ogni uomo (cum omni homine quodammodo se univit)» (22/b). Ora, se è vero che solamente nel mistero del Verbo incarnato è possibile scoprire la soluzione totale dell'enigma uomo, la ragione addotta è invece assolutamente priva di fondamento, insostenibile, assurda.

Il mistero del Verbo incarnato è quello, come dice la parola, della sua stessa incarnazione e con essa della sua individualità anche come questo soggetto che signoreggia due mondi distinti, il divino e l'umano, in lui ipostaticamente congiunti, grazie alla funzione che l'Io personale del Verbo esercita sulla natura umana di Cristo, individua integra e perfetta[5]. Dicendo «due mondi distinti, il divino e l'umano», la dottrina cattolica intende non gl'individui che ad essi appartengono, bensì le due nature o sostanze, la divina e l'umana, congiunte insieme - e pur sempre distinte e non confuse - nell'ipostasi divina del Verbo. Nel testo, però, di GS poco sopra citato, la dottrina dell'unione e della distinzione è radicalmente sovvertita: l'unione ipostatica, dilatata all'intera umanità nonostante l'attenuazione del « quodammodo»; il confine tra il divino e l'umano, soppresso; inesistente la distinzione tra natura e soprannatura.

È, sì, vero che anche i Padri conciliari avvertiron l'enormità del loro asserto e col solito  metodo del dire e non dire ne proposero un ridimensionamento: aggiunsero infatti l'avverbio «quodammodo», cioè «in qualche modo o misura», per attenuare lo stridore d'una contraddittorietà irriducibile: il Verbo si sarebbe dunque congiunto non con la natura umana, ma «in qualche modo o misura» con tutti singoli titolari di essa. A parte il fatto che, nel linguaggio teologico, perfino in quello di san Tommaso, l'avverbio «quodammodo» e l'uso stesso di «quidam-quaedam-quoddam» sono spesso un'implicita confessione d'insicurezza, d'indecisione, di non perentorietà, e finiscono quindi per confermare ciò che dovrebbero e vorrebbero modificare, non nego affatto l'intento - di per sé evidente - d'addomesticare l'insostenibile asserto; ma l'asserto rimane esattamente ciò che è, e come è. Mantiene, se pur attenuato - ma non si sa in che senso e misura - il significato delle sue parole, questo: non tutti presenti nel Verbo incarnato, ma il Verbo presente in tutti, essendosi egli in tutti incarnato, sia pur in un modo indefinibile. Efeso e Calcedonia, quindi, cancellati. E cancellata l'assunzione della sostanza umana individua e perfetta da parte del Verbo. E cancellate pure l'unione e la distinzione delle due nature. Con Cristo, tutto il divino è ormai non in tutto l'umano, ma in ogni umano soggetto. La deriva antropocentrica del divino non avrebbe potuto aver una proclamazione più significativa di questa: «Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodammodo se univit».

Potrei continuare a citar ancora, l'un dopo l'altro, i brani di GS inneggianti all'uomo, espressione d'una radicale infatuazione antropologica, che non raramente sembra convertirsi in vera adorazione: non aggiungerei molto, o non molto più significativo di quanto ho già esposto. Non posso, tuttavia, rinunciar a metter in evidenza un altro assurdo metafisico di questo documento, il quale, in 24/c, non esita ad asseverare che l'uomo «in terris sola creatura est quam Deus propter seipsam voluit»[6]. L'uomo, dunque, unica creatura da Dio creata per se stessa. L'assurdo metafisico consiste nel fatto che, se Dio crea per qualcuno e per qualcosa al di fuori di sé, o gli è soggetto, o gli si assoggetta egli stesso. Nell'uno e nell'altro caso, restando condizionato a e da qualcosa, a e da qualcuno al di fuori di sé, non è né può dirsi Dio: non l'Assoluto, non l'Essere supremo, non il Necessario distinto da ogni contingente. Noto poi che, nel caso, non si ha a che fare soltanto con un assurdo metafisico, ma anche con una contraddizione interna: il citato 24/c è, infatti, contraddetto da 41/a che recita « mysterium Dei, qui est ultimus finis hominis», il fine ultimo, oltre il quale non ce n'è assolutamente un altro, tutto avendo Dio creato per se stesso, anche l'uomo. Direi, anzi, soprattutto l'uomo che, in quanto dotato d'intelletto, nel ricondurre a Dio la conoscenza razionale della concatenazione di cause ed effetti, esprime la sua dipendenza radicale da Lui e rende gloria al suo Amore diffusivo di sé. Del resto, pur non tutti essendo professori di metafisica e forse neanche godendo tutti  d'una mentalità metafisica, i Padri avrebbero dovuto ben conoscere, tutti, la Sacra Scrittura e trattenersi dallo scrivere un'affermazione di tale e tanta gravità, come quella della «sola creatura creata per se stessa»: «Propter semetipsum - si legge in Prv 16,4 - operatus est Dominus» (cfr. Dt 26,19): soltanto per sé e per la dilatazione della sua gloria esterna.

Se GS avesse inteso sottolineare che tutt'il creato fu dal Creatore voluto per l'uomo ed a lui finalizzato, affinché l'uomo, vertice del creato, non fosse sottoposto ad altre creature, non ci sarebbe stato motivo di gridar allo scandalo. Ma, questo non essendo il senso dato dal Concilio alle sue parole, lo scandalo ci fu e che scandalo! In un Concilio ecumenico! 

Il documento è tutt'un susseguirsi di proclamazioni scioccanti, il cui numero rende difficile la scelta dell'esemplificazione: potrei dir a tal fine tolle et lege. Qualche altro rilievo, tuttavia, mi pare non solo opportuno, ma doveroso. Ho parlato di confusione tra naturale e soprannaturale. Non è cosa da poco. È l'ostracismo, anche se non ostentatamente gridato, alla prospettiva teocentrica ed è la porta d'ingresso per quella antropocentrica. Un rimescolamento di carte: quant'è del cristiano perché della Chiesa, è anche d'ognuno perché di tutta l'umanità. Non a caso già il Proemio di GS allude ad una tale idea, come se fosse uno dei temi di fondo sui quali l'intero documento verrà poi articolato. Vi si legge che «nulla c'è di genuinamente umano che non trovi un'eco nel cuore» dei cristiani, la cui comunità «si sente per questo - quapropter - veramente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia». Se ciò si riferisse ad una condivisione cristiana di qualunque motivo di turbamento per il cuore dell'uomo o di qualunque sua nobile speranza, nulla ci sarebbe da eccepire; ma il solidarizzare della Chiesa, anzi il suo comunicare con tutt'il genere umano sulla base di condizioni naturali identiche in cristiani e non cristiani, dimentica le ragioni soprannaturali che la sospingono, sì, incontro ad ogni uomo, ma solo per risolverne i problemi di fondo: il peccato originale, la correlativa questione della salvezza eterna, gl'interrogativi d'un'esistenza lineare con le premesse dell'evangelo e con le sue esigenze di coerenza evangelica[7].

Il fatto è che l'allargamento dell'interesse conciliare dai soli cristiani all'uomo in quanto tale conferma l'accennata apertura della prospettiva antropocentrica. E che tale apertura risponda ad un intento primario di GS, è dimostrato dalla sua diretta confessione: tanto più significativa, questa, in quanto formulata dopo le battute iniziali, a scopo evidentemente programmatico. Dop'aver dichiarato di voler aprir un dialogo con l'umanità per «metter a sua disposizione le energie di salvezza[8] che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo riceve dal suo Fondatore», GS 3/a - quasi a cancellar il sospetto d'un ritorno al soprannaturalismo medievale che tali parole potrebbero suggerire - prorompe in un peana per l'uomo, al cui valore riconosce la funzione di fondamento delle proprie preoccupazioni e della propria dottrina. Il testo è stato precedentemente citato, ma la ripetizione a questo punto è uno strumento retorico per dimostrar il vero intento del Concilio: «Il cardine di tutta la nostra esposizione sarà dunque l'uomo, nella sua unità e totalità, col suo corpo e la sua anima, il suo cuore e la sua coscienza, la sua mente e la sua volontà». Cardine. Volendo metter in evidenza la base ed il fondamento dell'antropocentrismo di GS, non si poteva sceglier parola più chiara ed efficace.

Ed, ovviamente, insieme con l'uomo il mondo. Fu già ricordato che cosa volesse Giovanni XXIII, che cosa Paolo VI e, a Concilio ormai in fase di ricezione, che cosa abbia voluto Giovanni Paolo II e che cosa voglia il regnante Pontefice: la riconciliazione della Chiesa col mondo. E fu pure messo in evidenza l'equivoco collegato al reiterarsi di codesta frase: non la Chiesa s'era fatta nemica del mondo, ma il mondo della Chiesa. Donde un altro equivoco: che la Chiesa desideri riconciliar a sé il mondo, fa parte della sua missione, ma questa non può chiederle d'adattarsi ed ancor meno d'uniformarsi ai principi del mondo. Equivoco a parte, una domanda a questo punto appare ineludibile: qual è il significato del lemma mondo nell'uso di GS, presto imitata dal nuovo linguaggio teologico?

L'ambiguità del lemma, ampiamente testimoniata dalla Sacra Scrittura, è risaputa. Del mondo la Scrittura riconosce la genesi da Dio (At 17,24; Gv 1,3.10; Col 1,16; Eb 1,2) e la testimonianza che il mondo rende alla divina provvidenza (At 14,16), ma conosce pure quello stato di subordinazione a Satana (1Gv 5,19) che ne fa il teatro ed il tramite del peccato fin dalla sua origine (Gv 1,29) e, pertanto, la pietra d'inciampo sulla via del Regno (Mt 18,7). Eppure, proprio questo mondo tutto in balia del maligno (1Gv 5,19) è quello che il Padre avvolge nel suo amore ed al quale fa dono del suo Unigenito (Gv 3,16-17). GS né ignora, né rifiuta, né analizza una tale ambiguità; l'accoglie qual è. Si pone anzi in atteggiamento d'ammirata venerazione dinanzi a questo mondo in cui più che l'ambiguità considera «l'intera famiglia umana con tutte le realtà in mezzo alle quali essa vive, [...] il teatro della storia del genere umano, [...] i segni dei suoi sforzi, delle sue sconfitte e delle sue vittorie», oggetto «dell'amore del Creatore»[9], sottoposto «alla schiavitù del peccato, ma liberato da Cristo crocefisso e risorto con l'annullamento della potestà del maligno e destinato, in conformità al progetto di Dio, a trasformarsi ed a giungere a compimento»[10] (Gs 2/b). Come se ciò non bastasse, lungo l'intera costituzione pastorale il tema del mondo vien ripreso confermato ed ancor una volta rispettato nella sua ambiguità di base. GS, infatti, auspica che «il mondo riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento», ma si dice pure consapevole di quanto la Chiesa «abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano»[11] (44/a): «I concetti e le lingue dei diversi popoli», « la sapienza dei filosofi», «lo scambio vitale tra la Chiesa e le diverse culture» (44/b). È, questo, un non trascurabile aiuto che «credenti e non credenti» forniscon alla Chiesa «nella misura in cui essa dipende da fattori esterni»: un aiuto ed un «giovamento che può venirle perfino dall'opposizione di quanti l'avversano e perseguitano» (44/c). Ormai, per la costituzione pastorale, non ci son più frontiere contrapposte e se qualcuno le contrappone, saran tutte sempre, anche e perfino un'eventuale persecuzione, un «giovamento» che il mondo porge alla Chiesa. Le frontiere si son in tal modo e a tal punto avvicinate, che son ormai giunte alla saldatura. Ciò che la Chiesa fa e dice, lo fa e lo dice per mondo; e quanto il mondo va operando nella sua corsa al progresso è a beneficio della Chiesa.

Grazie alla «trasformazione sociale e culturale» che ha le sue ripercussioni su tutti gli aspetti della convivenza umana, quella religiosa compresa (4/b), GS inneggia alla cancellazione delle frizioni d'altri tempi. La trasformazione, infatti, non solo si ripercuote sulle condizioni storiche dell'umana convivenza, fin a rimuoverne l'eventualità e l'idea stessa d'una rivoluzione anticristiana - che però va per la sua strada e non si ritrae dall'infierir oggi pure contro i cristiani, infliggendo loro una morte violenta in odio della Fede - ma procede sicura sulle strade dell'antropocentrismo, di cui il mondo, così come vien presentato, diventa l'ambiente ideale. L'ambiente dico, dove gli «amorosi sensi» si vivono, o il teatro dove agli «amorosi sensi» si recita. L'ambiente non più delimitato da le staccionate, ma dilatato dalla loro caduta, secondo l'ingenuo ottimismo che sorresse tutt'il discorso conclusivo di Paolo VI durante la Messa del 7 dicembre 1965[12]; l'ambiente de l'ormai trionfante antropocentrismo che osa equiparar i diritti dell'uomo a quelli di Dio, o identifica questi in quelli e riconosce come divini pensieri e progetti puramente umani. Fu emblematico a tale riguardo il sopraricordato discorso di Paolo VI, là dove equiparò il Vaticano II all'incontro tra «la religione di Dio che si è fatto uomo» e «la religione [perché tale è] dell'uomo che si fa Dio»[13].
___________________________________
4. Si ricorda di F. C. S. Schiller, Humanism, philosophical essays e Studies in Humanism, l'uno del 1903 e l'altro del 1907. Di j. Maritain, è invece da ricordar il famoso Humanisme intégral, Paris 1936 (trad. it. Roma 1947), fortemente criticato da A. Messineo su «La Civiltà Cattolica» del 29 marzo 1954, pp. 663-669, a sua volta oggetto di replica da parte di G. Aceti in Vita e Pensiero 1914-1964, Vita e Pensiero, Milano 1966, pp. 512-520.
5. Val la pena, a tale riguardo, di ricordare che cosa il Magistero ecclesiastico sancì a) al Concilio di Efeso, con la dottrina dell'unione ipostatica «vera reale fisica»; b) e al Concilio di Calcedonia, con la dottrina dell'integrità e perfezione della natura assunta. Tutto ciò per dichiarare che in Cristo c'è una sola persona, perché c'è una sola sussistenza, quella del Verbo, la quale unisce in sé in modo reale e profondo la natura divina e la natura umana, mantenendole però integre reali e distinte. L'unione è dottrina di Efeso; la distinzione, di Calcedonia.
6. Cito in latino, perché questa lingua mantiene rigorosamente le concordanze che consentono, assai più delle lingue volgari, di stabilire l'esatto pensiero dei Padri conciliari. Dicendo che l'uomo è, sulla terra, «sola creatura quam Deus propter seipsam creavit», cade ogni dubbio sulla finalità della sua creazione: il femminile «se ipsa» è in perfetta concordanza col femminile «sola creatura» e col pronome pure femminile «quam»; Dio è in tal modo perentoriamente escluso dalla sua finalità creatrice. Ed accontento così, con un richiamo alla legge delle concordanze, chi mi consiglia di legger attentamente l'originale.
7. E nulla dico sulla mancanza d'un collegamento logico tra la premessa d'una «più profonda penetrazione nel mistero della Chiesa» e la conseguenza del suo discorso non più rivolto «ai soli [suoi] figli, né solamente a coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti indistintamente gli uomini» (GS 2/a). Parrebbe che la realtà dei non cristiani, ai quali oggi la Chiesa si rivolge, fosse la novità derivante da un più approfondito esame del suo mistero. Che cosa fu, allora, prima di codest'esame,
l'evangelizzazione in genere, che cosa in special modo furon le missioni?
8. Per l'ennesima volta metto l'accento sul vezzo invalso soprattutto dal Concilio in poi di parlare d'una generica e mai precisata salvezza, con assoluta reticenza di ciò che caratterizza la salvezza cristiana ed il suo oggetto: l'accesso dal peccato alla grazia e, quindi, alla vita eterna.
9. Il testo originale porta: «Quem christifideles credunt ex amore Conditoris conditum et conservatum»: come si vede, non un'affermazione della creazione dal nulla da parte dell'amore divino che s'espande negli oggetti da esso stesso creati, ma l'aggancio di tali oggetti alla credulità dei cristiani, secondo i quali - soggettivamente, quindi - ciò che è troverebbe spiegazione nella potenza creatrice dell'amore di Dio.
10. Altra frase ermetica: il progetto di Dio prevede, dunque, il «trasformarsi» del mondo fin al «compimento» (!!!). Il testo sembra ignorare che ci si trasforma in meglio ed in peggio e che il pervenir a compimento («ad consummationem» significa più propriamente «fin al termine», «alla conclusione») non ha senso se non si specifica. Così com'è, può dir tutto ed il cpntrario di tutto.
11. Ennesima sfasatura formale e logica: i termini di paragone son Chiesa e mondo, non Chiesa e genere umano.
12. Si veda il testo in Acta Synodalia sacrosancti Concilii Œcumenici II 1970-1980, Typis Vaticanis, Città del Vaticano 1970, vol. IV/7, pp. 654-662.

15 commenti:

Amicus ha detto...

Circa la Gaudium et spes - ma in realtà su tutto un po' il superconcilio - parafrasando la nota massima: 'cherchez la femme', si potrebbe tranquillamente dire: 'cherchez Teilhard'...
Tutta la Gaudium et spes altro non è che una trasposizione, adattata alle circostanze, della gnosi di Teilhard de Chardin il cui principale rappresentante nell'aula conciliare era il p. Henri de Lubac, suo amico,discepolo e fanatico ammiratore. Ragion per cui, se è vero che il de Lubac è il 'padre' del Vaticano II in quanto discreto capostipite dei 'nouveaux théologiens' d'assalto che guidarono quell'assise, potremmo dire che il vecchio Teilhard ne è il ... 'nonno'. Di conseguenza, la soluzione del dramma del Vaticano II dovrà passare necessariamente attraverso una previa condanna, chiara, esplicita e definitiva del pensiero teilhardiano, in quanto eretico e dissolutore di ogni teologia cattolica. Non più dunque una replica del vecchio e poco efficace 'monitum' del S. Uffizio, ma una totale estirpazione di questo cancro che tanto ha contribuito alla catastrofe del Vaticano II.
Non per nulla i suoi devoti 'nipotini' si dedicano anima e corpo a celebrarlo con puntuale ricorrenza in solenni simposi internazionali, fin nel cuore stesso della Cattolicità...

Luciana Cuppo ha detto...

Grazie, Mic, e buon 2013 a tutti!

Marco Marchesini ha detto...

Buon anno nuovo a tutti!

Avete letto l'elenco dei firmatari della GS sul sito del Vaticano?


http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html

Figurano i nomi di:

Ego ALAPHRIDUS S. Mariae in Domnica Protodiaconus Cardinalis OTTAVIANI.

Ego ANTONIUS S. Eugenii Diaconus Cardinalis BACCI.

Io mi chiedo perché abbiano firmato un testo come GS dato che nessuno li obbligava? Quelli sono gli autori del BEC, autori sulla cui ortodossia nessuno ha dubbi.

Comprendo le osservazioni di Mons. Gherardini, ma allora quei firmatari che ne pensavano dei brani posti qui in evidenza?

Anonimo ha detto...

Caro Marco, abbiamo visto come il linguaggio fluido e non definitorio, che caratterizza questo come gli altri documenti conciliari, possa non far cogliere ad un primo esame le suggestioni e talvolta gli sviamenti, evidenziabili da una lettura più meditata e attenta, nutrita dalla philosophia perennis - completamente abbandonata - e dal Magistero bimillenario.

Lo stesso Mons. Gherardini, che negli ultimi anni ha prodotto numerosi studi documenti e testimonianze sulle storture conciliari, ha dichiarato più volte di essersi lui stesso dovuto arrampicare sugli specchi durante i suoi lunghi anni di insegnamento, per effettuarne una "lettura in contintuità"... e, naturalmente, le difficoltà emergevano solo man mano che le questioni venivano poste all'attenzione e sviscerate.

Buon Anno Nuovo anche a te e a tutti!

Anonimo ha detto...

Sul perseipsam


La definizione tradizionale di persona è "essere per sè".
Cosa c'è di sbagliato nel sostenere che, sulla terra (si precisa sulla tera, per non escludere il mondo angelico), l'unica creatura che Dio abbia voluto dotata dell'essere come persona (per seipsam) sia quella umana?
SV

Anonimo ha detto...

Su cosa fondi e da cosa deduci che perseipsam possa avere il senso di come persona?

Il senso originario della Scrittura che vi corrisponde (come ampiamente riportato e anche spiegato) è riferito a Dio, non alla creatura. Ed è quello di vicino, a fianco di Dio, per Lui... non è forse questo il destino della creatura voluta da Dio e chiamata alla vita in modo a Lui ordinato? E non consiste proprio e unicamente in questo la sua sublime dignità?

Se l'essere per sé della persona esprime la dinamica di finalizzazione e di autodeterminazione e dunque la
consapevolezza e la libertà del suo agire, non può essere posto come un assoluto svincolato dalla finalità impressale da Dio creandola.

viandante ha detto...

Perchè mai, o meglio, a qual fine Dio ci ha creati? Beh, se l'uomo é l'unica creatura creata per sé stessa come sostenuto in GS, il fine é in lui stesso. O comunque non sembra esserci un particolare rapporto di dipendenza dal Creatore. Comunque, non avendo le capacità per sostenere discorsi teologici di altissimo livello, ho fede nella ragionevolezza della Chiesa di sempre, negli insegnamenti infallibili che sempre, ovunque e da tutti sono stati creduti. E questi sono un grandissimo aiuto per i semplici, che nel dubbio possono andare a vedere cosa é stato creduto nel passato ed in tempi non sospetti. Quindi mi rifaccio al catechismo di Pio X:
13. Per qual fine Dio ci ha creati? Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell'altra, in paradiso.

Senza andare a cercare tanti sillogismi, praticamente (per la mia vita spirituale) ciò basta e mi conferma che Mons. Gherardini é in continuità con la Tradizione della Chiesa.

Il discorso sul perseipsam é invece importante se si vuol discutere ed argomentare coi modernisti (e quindi in tal senso non solo é utile ma anche doveroso). E l'esposizione di Mons. Gherardini oltre che semplice e chiara, arriva a confermare quanto noi semplici già intuivamo. Grazie!

giuseppe ha detto...

A mezzo secolo di distanza e nel pieno del lavoro di ri-orientamento dottrinale iniziato da Benedetto XVI, si posseggono più elementi di valutazione.

Se i Cardinali Ottaviani e Bacci approvarono e firmarono il testo definitivo di GS è perché evidentemente vi attribuirono significati e contenuti ortodossi. Sono questi allora da intendere come linee guida del documento e tali da costituirne il senso generale, piuttosto che un malinteso "antropocentrismo".

Ma per essere intesi teologicamente anche dai semplici fedeli, i significati ortodossi andrebbero esplicitati e spiegati, e in questo il testo di Mons. Gherardini non aiuta molto. Lo scritto è fortemente polemico, ma Mons. Brunero Gherardini è insigne teologo e docente di larga esperienza, per cui penso che dovrebbe confrontarsi di più - pacatamente - con quanti, tra i suoi pari, forniscono una lettura diversa e positiva della Costituzione pastorale del Concilio, libera dai deleteri influssi teilhardiani.
L'unico intervento teologico che conosco in questo senso è molto striminzito, perché è quello di P. Cantoni nel testo "Riforma nella continuità Vaticano II e anticonciliarismo", 2011, pp. 32, 33 a proposito del "quodammodo" che, pur breve, ho sinceramente trovato chiaro ed esauriente (ho cercato di usarlo in alcuni miei commenti nella discussione precedente). Non so se ve ne sono degli altri.

Poi, sulla stessa Costituzione pastorale, una direttrice decisiva è stata data da Benedetto XVI nel Discorso pronunciato a Castel Gandolfo il 2 agosto dell'anno scorso e pubblicato sull'OR dell'11.10.2012, laddove ha affermato che essa "non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale" per "definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell'età moderna", dopo lo scacco che pretendeva di togliere alla Chiesa ogni possibilità di "plasmare il mondo"; ed ha inoltre riportato tutta una serie di altri punti concernenti le Dichiarazioni DH e NA, sempre in direzione di una purificazione dalle cattive interpretazioni che hanno inondato il campo, e di valorizzazione dei reali contenuti dei documenti, non sempre in sé perfetti e definitivi.

Di notevolissimo interesse, a questo proposito, anche sul piano del metodo, è la nota n. 1. dello stesso testo di GS: l'avete letta?

Insomma, mi sembra che per rendere pastoralmente accessibile ed efficace la dottrina di un qualsiasi atto di Magistero autentico della Chiesa (e tanto più quindi di un Concilio Ecumenico) i teologi e pastori dovrebbero aiutarci a intenderne il significato quale esso è, conforme alla natura e al modo d'essere del Magistero: "quaerere rationem quomodo sit", e non già "quomodo non sit", come insegnò San Pio X nell'Enciclica "Communium rerum" del 1909 (1). Non, dunque, come forse - lo dico con rispetto - sta rischiando di fare Mons. Gherardini, facendo il lavoro al contrario.

Mi scuso dell'esagerazione nella lunghezza del commento che spero non sia sgradito. Non l'avrei scritto se non trovassi - ad onta di certe asperità - "quodammodo" interessante ed utile il blog.


(1) La citazione è tratta da "Liberté religieuse, réponse aux dubia présentés par S.E. Mgr Lefebvre", un documento della CDF del 1985 che ho conosciuto e letto grazie proprio a questo blog, e più esattamente grazie a Marco Marchesini.

Anonimo ha detto...

Ma per essere intesi teologicamente anche dai semplici fedeli, i significati ortodossi andrebbero esplicitati e spiegati, e in questo il testo di Mons. Gherardini non aiuta molto. Lo scritto è fortemente polemico, ma Mons. Brunero Gherardini è insigne teologo e docente di larga esperienza, per cui penso che dovrebbe confrontarsi di più - pacatamente - con quanti, tra i suoi pari, forniscono una lettura diversa e positiva della Costituzione pastorale del Concilio, libera dai deleteri influssi teilhardiani.

Giuseppe, mi pare che limitarsi a criticare e anche pesantemente uno studioso come Mons. Gherardini, non sia corretto, in presenza di un'affermazione apodittica come la tua, oltretutto opinabile. Mi pare infatti ovvio che, se è possibile una lettura diversa e libera dai deleteri influssi teilhardiani, ciò non dimostra che questi influssi non ci siano, ma solo il fatto che essi entrano o meno in campo a seconda della lettura che si dà al documento... E dunque, che caspita di attendibilità può avere un testo che, se permette diverse letture, è quanto meno ambiguo?

L'unico intervento teologico che conosco in questo senso è molto striminzito, perché è quello di P. Cantoni nel testo "Riforma nella continuità Vaticano II e anticonciliarismo", 2011, pp. 32, 33 a proposito del "quodammodo" che, pur breve, ho sinceramente trovato chiaro ed esauriente (ho cercato di usarlo in alcuni miei commenti nella discussione precedente). Non so se ve ne sono degli altri.

Si dà il caso che l'autore a cui dai credito si sia aggiunto alla sgomitante schiera dei contestatori, con i quali Mons. Gherardini non usa polemizzare, ma parla con i suoi scritti.
In questo caso, trattandosi di un suo ex alunno ha rilasciato questa toccante ma anche chiara e significativa intervista...

Ora non ho tempo, ma domani articolerò una risposta più completa.

Gederson Falcometa ha detto...

Giovanni Paolo II sul Gaudium Et Spes e il Concilio Vaticano II:

"Karol Wojtyla nel 1976 da cardinale, predicando un ritiro spirituale a Paolo VI e ai suoi collaboratori, pubblicato in italiano sotto il titolo: Segno di contraddizione. Meditazioni, (Milano, Vita e Pensiero, 1977), inizia la meditazione “Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo” (cap. XII, pp. 114-122) su Gaudium et spes n.° 22 e asserisce: «il testo conciliare, applicando a sua volta la categoria del mistero all’uomo, spiega il carattere antropologico o perfino antropocentrico della Rivelazione offerta agli uomini in Cristo. Questa Rivelazione è concentrata sull’uomo […]. Il Figlio di Dio, attraverso la sua Incarnazione si è unito ad ogni uomo, è diventato - come Uomo - uno di noi. […]. Ecco i punti centrali ai quali si potrebbe ridurre l’insegnamento conciliare sull’uomo e sul suo mistero» (pp. 115-116). In breve questo è il succo concentrato del Vaticano II: culto dell’uomo, panteismo e antropocentrismo idolatrico. Non lo dico io, ma Karol Wojtyla, alla luce di Paolo VI e del Concilio pastorale da lui ultimato.

a) Giovanni Paolo II, dal canto suo, afferma nella sua prima enciclica (del 1979) ‘Redemptor hominis’ n.° 9: «Dio in Lui [Cristo] si avvicina ad ogni uomo dandogli il tre volte Santo Spirito di Verità» ed ancora ‘Redemptor hominis’ n.° 11: «La dignità che ogni uomo ha raggiunto in Cristo: è questa la dignità dell’adozione divina». Sempre in ‘Redemptor hominis’ n.° 13: «non si tratta dell’uomo astratto, ma reale concreto storico, si tratta di ciascun uomo, perché […] con ognuno Cristo si è unito per sempre […]. l’uomo – senza eccezione alcuna – è stato redento da Cristo, perché, con l’uomo – ciascun uomo senza eccezione alcuna – Cristo è in qualche modo unito, anche quando l’uomo non è di ciò consapevole […] mistero [della redenzione] del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre».
b) Nella sua seconda enciclica (del 1980) “Dives in misericordia” n.° 1, Giovanni Paolo II afferma: «Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e persino a contrapporre il teocentrismo con l’antropocentrismo, la Chiesa [conciliare, ndr] […] cerca di congiungerli […] in maniera organica e profonda. E questo è uno dei punti fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio». Questa frase, da sola, dovrebbe aprire gli occhi anche ai ciechi sulla impossibilità dell’ “ermeneutica della continuità” tra Vaticano II e Tradizione divino-apostolica. “Dio trascendente infinitamente l’uomo da Lui distinto” e “uomo che coincide con Dio in esso immanente”, non sono due proposizioni in continuità, ma in evidentissima contraddizione o rottura.
c) Nella sua terza enciclica (del 1986) ‘Dominum et vivificantem’ n.° 50, Giovanni Paolo II scrive: «Et Verbum caro factum est. Il verbo si è unito ad ogni carne [creatura], specialmente all’uomo, questa è la portata cosmica della redenzione. Dio è immanente al mondo e lo vivifica dal di dentro. […] l’Incarnazione del Figlio di Dio significa l’assunzione all’unità con Dio, non solo della natura umana ma in essa, in un certo senso, di tutto ciò che è carne: di […] tutto il mondo visibile e materiale […]. il Generato prima di ogni creatura, incarnandosi […] si unisce, in qualche modo con l’intera realtà dell’uomo […] ed in essa con ogni carne, con tutta la creazione». Sembra di leggere Giordano Bruno, Spinoza o Hegel (la contro-chiesa) e non il Vangelo, S. Paolo, un Padre ecclesiastico o S. Tommaso d’Aquino (la Tradizione della Chiesa). IL CUORE DEL PROBLEMA ATTUALE - La rivoluzione antropolatrica del Vaticano II - http://www.doncurzionitoglia.com/rivoluzione_antropolatrica_vat2.htm

Allora, per fare l'ermeneutica continuità, che cosa dobbiamo fare con queste parole?

viandante ha detto...

... per essere intesi teologicamente anche dai semplici, i significati ortodossi andrebbero esplicitati e spiegati, e in questo il testo di Mons. Gherardini non aiuta molto.

Scusami Giuseppe, ma stiamo capovolgendo le cose. La chiarezza, o meglio la mancanza di chiarezza, non proviene dagli scritti di Mons. Gherardini, ma dalla Gudium et spes stessa, che in diversi punti solleva molte obiezioni e perplessità.

Chiaro che l'ambiguità può dar adito a interpretazioni ortodosse, ma é altrettanto chiaro che l'uso diffuso dell'ambiguità che se ne é fatto, vi sono scritti che lo dicono apertamente, erano funzionali ad una rilettura posteriore sganciata dalla volontà dei vescovi conciliari.Una rilettura che si basa sull'antropocentrismo.

Quindi l'ambiguità é stata usata specialmente là dove era difficile far accettare idee sganciate dalla Tradizione e per questo insigni cardinali non si sono avveduti subito del pericolo.

Inoltre l'ambiguità, questa é una mia opinione, é però pure il modo con cui lo Spirito Santo ci ha permesso di sopravvivere all'errore conclamato, chiaro e trasparente. Il pericolo non era inaftti irreale, stando ai frutti "pastorali".

Gederson Falcometa ha detto...

Ancora sul Gaudium Et Spes, il Cardinale Ratzinger ha detto che lei era una sorta di "contra syllabus" e anche ha avuto un dialogo con mons. Lefebvre dove riconosce la rottura. Per quanto mi ricordo in questio dialogo lui ha chiesto a mons. Lefebvre l'accettazione della Gaudium et Spes vede:

mons. Lefebvre:
- Gaudium Et Spes, non è contro Quanta Cura?

Cardinale Ratzinger:
- Eccellenza, non siamo più al tempo della Quanta Cura.

Mons. Lefebvre:
- Né posso accettare il suo concilio, perché domani sarà giornale di ieri.

Marco Marchesini ha detto...

Sulla questione del "creata per se stessa" ho trovato questi riferimenti di Battista Mondin:

http://books.google.it/books?id=l01kIJfklNAC&printsec=frontcover&dq=Manuale+di+filosofia+sistematica:+Etica+e+politica&hl=it&sa=X&ei=EoXkUImrMIbj4QSf3oCoAw&ved=0CDcQ6AEwAA#v=onepage&q=Manuale%20di%20filosofia%20sistematica%3A%20Etica%20e%20politica&f=false

Manuale di filosofia sistematica: Etica e politica

pagina 219

http://books.google.it/books?id=6XDGXOBoeWgC&printsec=frontcover&dq=Manuale+di+filosofia+sistematica:+Metafisica.+Ontologia&hl=it&sa=X&ei=8YTkUNS0AemS4ATet4D4Bw&ved=0CDcQ6AEwAA#v=onepage&q=Manuale%20di%20filosofia%20sistematica%3A%20Metafisica.%20Ontologia&f=false


Manuale di filosofia sistematica: Metafisica. Ontologia

pagina 278.

Gederson Falcometa ha detto...

Caro Marco,

Confesso che non ho studiato a fondo l'espressione "creata per se stessa", ma ho letto l'indicazioni che fanno riferementi alla Summa Contra Gentiles, 3, 112. In portoghese la Summa è stata tradotta per Don Odilo Mourão, che è la migliore traduzione per il portoghese, nella parte del brano del libro III, 112, nella traduzione di lui se legge così:

Portoghese:
"E também por isso as criaturas intelectuais são dispostas por Deus como cuidadas por elas mesmas, ao passo que as outras criaturas, como ordenadas para as criaturas racionais".

Italiano:
"E anche per questo sono disposte le creature intellettuali da Dio come curate per se stessi, mentre le altre creature, come ordinato alle creature razionali".

Latino:
"Disponuntur igitur a Deo intelectualles creaturae quasi propter se procurate, creaturae vero aliae quasi ad rationales creatures ordinate".

Suma Contra Gentiles, lib. 3, 112 - Traduzione di Don Odilo Mourão, osb, http://sumateologica.files.wordpress.com/2010/06/suma-contra-os-gentios-volume-ii-livro-3.pdf

Ho trovato anche la versione in italiano del P. Tito S. Centi che dice:

"Perciò le creature intelletive vengono guidate da Dio come volute per se stesse, mentre le altre creature lo sono in quanto ordenati alle creature dotate di ragione".

Latino uguale la versione brasiliana:
"Disponuntur igitur a Deo intelectualles creaturae quasi propter se procurate , creaturae vero aliae quasi ad rationales creatures ordinate".

Suma Contra Gentiles, lib. 3, 112 - Traduzione P. Tito S. Centi, o.p.,
http://books.google.com.br/books?id=qJZ5nfaHEzIC&printsec=frontcover&hl=pt-BR&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=snippet&q=112&f=false

Allora, la parola in latino che apparre nel testo latino delle due versione è "propter se procurate", per "voluta per se stessa", non doveva aparre il "propter se ipsum" ?

Un saluto dal Brasile

Marco Marchesini ha detto...

Grazie mille caro Gederson per la segnalazione.
Forse il testo da te segnalato può essere un tentantivo per armonizzare GS con la dottrina tradizionale, ma non ho molte speranze in proposito.