Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 26 gennaio 2015

La riforma postconciliare dei libri di canto gregoriano: primavera di creatività

Torna Tonus peregrinus con le sue puntate sulla musica sacra.
Ridotta ad un'immagine che mi viene spontanea, la conclusione che si ricava dallo scritto è che i novatori postconciliari hanno fatto a brandelli una splendida preziosa veste d'alta sartoria, creata su misura e con arte sublime per un evento unico vissuto da una Domina di rango eccelso. Alcuni di questi brandelli sono stati ripresi e adattati alla meglio per la festa di una donzelletta campagnola.
Credo che i musicologi di oggi dovranno esercitare il loro ingegno e le loro capacità nel combattere il degrado attuale, non solo quantitativamente ma soprattutto qualitativamente, ben superiore a quello passato, che pure c’è stato, per effetto delle contaminazioni “mondane” rinascimentali, barocche e operistico-ottocentesche.
Degrado o contaminazioni, di qualunque genere, vanno comunque evitati e combattuti, distinguendo ciò che è propriamente liturgico da ciò che non lo è. Ed è necessario riportare alla luce l’antico vettore della lex orandi, (ri)offrendo al rito la sua dimensione sonora plasmata dalla e nella Actio del Signore. Impossibile, credo, tornare ad una purezza originaria, ma ciò che è appropriato e appartiene alla Santa e Divina Liturgia, va custodito e recuperato con passione e buona volontà. E probabilmente con gradualità, a partire da quanto è realisticamente possibile. Senza l’ottica del minimo sindacale.

La riforma postconciliare dei libri di canto gregoriano:
primavera di creatività

Tra i passi più citati (e inflazionati) quando si parla e si scrive di musica liturgica, e soprattutto della sua crisi in seguito al Vaticano II, si colloca al primo posto, senz’ombra di dubbio, il numero 116 della “Sacrosanctum Concilium” (che qui, per pietà dei lettori, non riportiamo). Meno citato è, ad esempio, il numero seguente, il 117, che qui, a beneficio dei lettori, riportiamo:
“Si conduca a termine l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un’edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di san Pio X.
Conviene inoltre che si prepari un’edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese minori”
Bene. Il passo in questione ci sembra utile per chiarire un paio di aspetti della riforma liturgica seguita al Vaticano II e, nella fattispecie, aspetti che hanno portato, sia pur trattando del tradizionalissimo canto gregoriano, alla devastazione attuale contenendo già in sé stessi, ancorché in forma embrionale, il seme della creativa mens liturgica postconciliare.

Un primo aspetto sul quale possiamo riflettere riguarda la prima richiesta del numero qui sopra riportato: la (ri)edizione dei libri di canto gregoriano. Questa è stata, naturalmente, un’opera di un’importanza capitale – non saremo certo noi a negarlo – che ebbe il suo apogeo nella stampa del Graduale Triplex, un Graduale del 1979 che, oltre alla notazione quadrata su rigo, in grado di fornirci le melodie gregoriane, riporta due notazioni neumatiche adiastematiche in grado di fornirci le precise indicazioni ritmiche: al di sotto del rigo leggiamo la notazione sangallese, mentre al di sopra è stata posizionata la notazione metense.
Fin qui nulla da eccepire, anzi: è proprio grazie ai precisissimi neumi che il Triplex ha ristampato che noi possiamo “ricostruire” l’interpretazione di ogni singolo brano e giungere, così, a ottenere la corretta esegesi che, di quel testo, la musica offre. È racchiuso proprio in quei neumi tutto lo “spirito” gregoriano, tutta quella retorica della quale il notatore si serve per “spiegare” i testi.
L’insidia, per contro, si è annidata per il fatto che, il nuovo Graduale, è stato totalmente sconvolto nella sua disposizione originale codificata dal rito antico: l’ordine dei canti, infatti, nel nuovo Graduale, rispecchia, ovviamente, il nuovo calendario liturgico del Novus Ordo.
Questo ha portato, inevitabilmente, a due conseguenze.
  • La prima: la totale scomparsa di quei canti appartenenti a feste, liturgie o domeniche soppresse col nuovo rito. 
  • La seconda, non meno grave della prima: il rimpasto subito da molti dei canti superstiti ha causato un annacquamento di tutti quei rimandi tra le varie liturgie sommamente codificati dal rito tradizionale e frutto di una stratificazione secolare con aggiunte anche novecentesche. Questa stratificazione può veramente dare l'idea di una mensa imbandita abbondantemente, con piatti prelibati vecchi e nuovi disposti secondo un ordine preciso e con una logica ferrea.
Valga, come esempio, la festa celebrata, nel calendario antico, domenica scorsa, la II domenica dell’Epifania. In questa domenica, la Chiesa, ha sempre ricordato la “Terza Epifania” di Nostro Signore alle nozze di Cana.
Dopo la solennità del 6 gennaio, nella quale Cristo si manifesta ai Magi e al mondo intero, nell’Ottava dell’Epifania, la Chiesa commemorava il Battesimo di Gesù (13 gennaio), la “seconda Epifania”, nel quale Cristo si manifesta in modo trinitario. La festa del Battesimo, per questo, conservava lo stesso identico Proprium dell’Epifania, proprio a voler testimoniare la sostanziale identità tra le due feste. Questo richiamo teologico, invece, è totalmente sparito con la nuova messa e il nuovo calendario: la nuova festa del Battesimo, infatti, ha un suo repertorio proprio assemblato ex novo ripescando qua e là i canti più adatti. Ma non solo: perché la “terza Epifania”, dove si fa memoria delle nozze di Cana, era collocata esattamente come terza e ultima tappa di questo itinerario epifanico di Cristo, ovvero nella II domenica dopo l’Epifania. Anche questo, come si diceva, non avviene più col nuovo calendario.

Il secondo aspetto sul quale sarà opportuno riflettere riguarda la seconda parte dell’articolo 117: la preparazione di un’edizione di melodie più semplici. Questa richiesta ha trovato accoglimento, nel 1967, con la stampa del Graduale Simplex, un testo alquanto ambiguo e insidioso.
Per quale motivo? Almeno per un paio di ragioni. La prima, la più accidentale: per la sua composizione si è attinto dal repertorio gregoriano dell’Ufficio divino scegliendo tra le varie antifone della Liturgia delle ore e facendole diventare antifone per la Messa. Il Simplex, infatti, è costituito da alcuni “schemi di messa” per ogni periodo forte dell’anno liturgico ognuno dei quali è composto di un introito, una salmodia come graduale, un alleluia, un offertorio e un communio tratti dal repertorio sillabico dell’Ufficio.
È chiaro, dunque, che non siamo più di fronte a quei brani sui quali la Chiesa ha sempre incardinato la propria lex orandi in musica; non sono più quei brani nati appositamente per la Messa e che, attraverso gli espedienti retorici veicolati dalla notazione neumatica, si propongono di tramutare in esegesi sonora la Scrittura. Con il Simplex, dunque, la Chiesa ha, in qualche modo, abdicato la sua missione docente accontentandosi di stilare un’antologia patchwork sotto l’apparente patrocinio del canto gregoriano. Ma, è chiaro, il gregoriano richiede altro.
Il secondo aspetto, se vogliamo anche più tragico, è la logica che soggiace a una simile creazione. Il Simplex, infatti, ha compiuto né più né meno la stessa operazione che si è tentata con i Repertori nazionali: offrire un’antologia di canti – in questo caso gregoriani – con testi più o meno appropriati per i grandi periodi dell’anno liturgico e interscambiabili tra loro. Ciò che conta, dunque, per il Simplex, non è il Proprium Missae (e se si chiama “Proprio” un motivo ci sarà…), ma un “Approprium Missae”, cioè che il testo sia appena adatto.
L’orizzonte a cui guarda il Simplex, in sostanza, è al ribasso: non è la manifestazione sonora della teologia e dell’esegesi cattoliche, ma appare come una “Casa del Padre” gregoriana all’interno della quale, fatta salva la qualità nettamente superiore delle musiche, si può liberamente attingere limitandosi alla pertinenza testuale dei brani e instillando il seme della libera creazione dei Propri che, dunque, Propri non sono più.
Ci permettiamo quindi di far notare al lettore quattro considerazioni che scaturiscono da quanto è sopra riportato, affinchè egli possa meglio comprendere il perché questa “riforma” del canto gregoriano, al netto dei grandi vantaggi filologici ed interpretativi, sia stata un sostanziale fallimento dal punto di vista liturgico e pratico
  1. La riforma dei libri di canto gregoriano ha condotto a una compresenza teorica di due repertori, ossia un repertorio originale ma modificato per adattarsi al Lezionario del Messale di Paolo VI, e un repertorio desunto dall'ufficio e ampiamente modificato per adattarsi alle esigenze delle Chiese minori che utilizzavano il medesimo lezionario ma necessitavano di maggiore flessibilità e performatività nel canto gregoriano.
  2. Tuttavia, allo stato attuale delle cose, nessuno dei due libri è frequentemente in uso presso le Chiese grandi o piccole, a vantaggio dei Repertori Nazionali (cioè dei canti in volgare).
  3. L'esigenza di riforma del canto gregoriano, scaturita dalla riforma liturgica, ha portato quindi alla moltiplicazione dei repertori senza sanare la radice dei problemi di esecuzione e performatività in generale della musica sacra, ossia la mancanza di cultura musicale nell'assemblea e, specie negli ultimi cinquant'anni, nel clero.
  4. Il canto gregoriano come compare nel Graduale simplex e nel Graduale Triplex risulta perciò difficilmente utilizzabile perchè richiede da parte degli esecutori una conoscenza della notazione musicale (la notazione quadrata) o in generale di una capacità di lettura musicale difficilmente riscontrabile nei cori parrocchiali (“delle Chiese minori”) o, almeno in Italia, nei cori delle Chiese più grandi.
Inoltre, questi due libri sono anche un emblema della imperfezione della riforma liturgica, in quanto presentano una sintesi di alcune delle contraddizioni della riforma guidata da Bugnini sulla scorta di una errata interpretazione della Sacrosantum Concilium. Vediamone alcune:
  • Tra il proprio della Messa nel Graduale Triplex è presente l'antifona d'Offertorio, che nel messale di Paolo VI viene abolita sia come recita da parte del Presidente sia come canto obbligatorio da parte del coro (si possono eseguire canti adatti). Un libro di canto quindi “aggiornato” ma con vestigia del passato ancora presenti, che fanno cozzare una scansione diversa della Parola di Dio (e, successivamente, di alcune orazioni quali la colletta e la super oblata) con melodie e testi offertoriali “tradizionali” e non normati esplicitamente dal Messale di Paolo VI. Quello che esce dalla porta (l'abolizione del proprio offertoriale), rientra dalla finestra (solo nel triplex e nel simplex, non nel Messale) e si trova nuovi coinquilini che parlano un linguaggio differente (nuovi proprii, nuove letture, nuove orazioni ecc.) e scopre di essere rientrato solo perché faceva parte di un patrimonio museale “tradizionale” (quindi da conservare come un reperto storico) e non certo liturgico e/o d'uso comune. Al di là di ogni ragionevole dubbio, questa è una palese incongruenza.
    Un esempio che può riassumere quanto detto: Il proprio della domenica diciassettesima contiene l'introito (con la variante da cantarsi il venerdì del ciclo I), il Graduale (con la variante per la Domenica dell'anno B), l'Alleluja, l'Offertorio (scomparso dal Messale), il Communio (tre a scelta a seconda dell'anno A,B,C o un communio per il giovedì della settimana). Tale abbondanza eccessiva pare ovviamente destinata solamente alle grandissime Chiese e programmata per garantire una coerenza teorica tra il lezionario e alcune altre parti della Messa, mentre per le piccole Chiese rimane la possibilità di scegliere tra otto schemi (mentre prima ogni domenica aveva il proprio schema immutabile, garantendo anche una “ripetitività” che poteva essere una garanzia di perfezionamento negli anni da parte del coro).
    Di fatto, questa riforma non ha portato a nulla di convincente sotto l'aspetto liturgico e pratico se non a una sorta di coerenza con il ciclo delle letture, non solo domenicali, peraltro imperfetta e antistorica.
  • Se da una parte la riforma conciliare voleva risolvere il problema della difficoltà (sentita anche oggi in diversi coetus) di celebrazione di una messa tridentina cantata “pura” (a causa della lunghezza e della varietà delle parti mobili da cantare), difficoltà imperfettamente attenuate in precedenza con la possibilità normata di formule salmodiate o intonazioni brevi e recitazione del testo con sottofondo d'organo, dall'altra parte la celebrazione in canto novus ordo in latino viene assai appesantita trasformandola in un dialogo tra sacerdote e coro, con una assemblea che partecipa in misura minore rispetto a una messa letta “cum canticis” tridentina e si limita ad assistere ad un rito anacronistico, ampolloso ed ancora più faticoso per il celebrante (e forse per l'assemblea) di una messa cantata tridentina, sia per l'organizzazione che per la celebrazione.
  • Riflettendo su questi due libri si nota quindi come, da premesse filologicamente e liturgicamente buone, attraverso interventi filologicamente buoni e liturgicamente discutibili (a causa di una lettura ideologica dei riformatori liturgici del patrimonio precedente e delle istanze di riforma dell'assise conciliare), si passi a conclusioni filologicamente corrette e liturgicamente pessime e inattuabili.
Ciò ha quindi portato alla “profanizzazione” del canto gregoriano (si ascolta solo in CD o ai concerti) e, in mancanza di interventi da parte delle autorità competenti,  alla “liturgizzazione” della musica profana.
Si potrebbe obiettare, e non a torto, che nella mens di certi riformatori l'idea della Messa celebrata comunemente in volgare fosse ben antecedente al Concilio Vaticano II (e quindi il canto gregoriano sarebbe stato trattato di conseguenza come un orpello di arredamento sacro),  ma il dettato conciliare e la pubblicazione dei libri trattati sembrano smentire a livello giuridico e formale questa ed altre obiezioni di simile fattura, che si inseriscono nel perenne gioco a scacchi tra l'ermeneutica della continuità e quella della rottura (quanto alla musica sacra e al gregoriano, pensiamo che oramai i due giocatori siano giunti a una patta e abbiano preferito farsi un caffè, lasciando ad altri l'onere e l'onore di popolare le nostre Chiese di quel che garba all'animatore dell'assemblea, ai grilli parlanti della liturgia e al parroco che bello! C'è una scout con la chitarra/i ”chirieccriste” a Pasqua? M'hai convinto/purchè non il Messale di Pio Quinto!)
È indubbio che esistano Chiese nelle quali il proprio viene abitualmente cantato in latino alle Messe novus ordo, ma queste sono eccezioni che confermano la regola e non fanno che dimostrare come, in larga misura, il gregoriano non venga più percepito come qualcosa da valorizzare e da diffondere, ma come qualcosa da limitare a contesti elitari e raffinati per paura di allontanare il Popolo di Dio dalla liturgia. Popolo che, non essendo più abituato a conoscere e ad amare il canto proprio della Chiesa Cattolica, lo considera come qualche cosa di avulso e ostile se non, nel migliore dei casi, come una testimonianza di un passato che non c'è più e che, a detta di non si sa bene chi, non ha più nulla da dare.

Nella prossima puntata investigheremo insieme a voi il canto “in lingua volgare” nella liturgia, ossia tratteremo del perché l'eccezione sia diventata norma e come il contenuto, anche in questo campo, spesso si identifichi con la forma.

9 commenti:

Turiferario ha detto...

Sarebbe stato alquanto singolare che la "riforma liturgica", il cui scopo era protestantizzare la liturgia cattolica, partorisse una buona riforma del canto gregoriano! La stessa idea che la Messa sia celebrata esclusivamente in volgare fa a pugni con un utilizzo non episodico e "museale" del gregoriano. Ma il punto nodale non sono i sistemi di notazione e lo studio dei codici sangallensi: il punto nodale è la percezione della sacralità e della spiritualità di questo tipo di musica. Devo sentire prima di tutto questo, poi mi potrò preoccupare degli aspetti tecnici e storici.

mic ha detto...

Caro Turiferario,
ritengo i due autori dei testimoni, prima che tecnici, musicologi e musicisti.
E cogliere anche certe osservazioni più minuziose, che ci fanno meglio comprendere oltre che confermare (qualora ce ne fosse bisogno) l'iconoclastia perpetrata anche nei confronti della musica, non ci distoglie certo dai nodi fondamentali del problema.

Tony Dellachiesa ha detto...

Caro Turiferario,
sono d'accordo con Lei, ma il punto è che i codici (sangallesi, e non solo) sono proprio gli strumenti che veicolano L'esegesi cattolica. Non sono affatto minuziosi "aspetti tecnici": è solo attraverso quella notazione - la cui conoscenza non è richiesta a tutti, ma a chi ha posti di "animazione" liturgico-musicale - che si potranno percepire la "sacralità e spiritualità" di questo campo.
Un caro saluto.
Uno dei due autori

Turiferario ha detto...

La mia non era una critica: mi ponevo dal punto di vista di chi, tecnicamente, sa poco del gregoriano (mi metto fra questi, e ho paura che del club faccia parte il 99,9% dei cattolici, anche restringendosi ai praticanti). L'emergenza oggi, se così vogliamo dire, è fare amare questo nobilissimo e illustre sconosciuto, non perché è un reperto del passato ma perché è in grado di immetterci in una dimensione sacra che rischiamo seriamente di perdere. Per il resto trovo assolutamente interessanti le notazioni del thread e l'esame del letto di Procuste cui è stata costretta la tradizione musicale della Chiesa per cercare di adattarla ai mutamenti profondi introdotti nel rito dopo il 1969: operazione del resto inutile visto che subito dopo si è preferito abbandonare anche quella tradizione a favore di... attendo con ansia la prossima puntata e l'esame dell'attuale "musica liturgica".

mic ha detto...

Anch'io pensavo di sottolineare il fatto che siamo in molti a non conoscere se non per sommi capi il gregoriano e le sue ricchezze. E che anche l'analisi filogica ci aiuta a scoprirle, perché in fondo non è altro che la decriptazione della particolare 'esegesi' che il Gregoriano è di per sé...

Turiferario ha detto...

Caro Della Chiesa,
per comodità di esempio mi rifaccio a un campo che conosco meglio di quello musicale, ma penso che le premesse generali siano le stesse: la poesia di Dante non si percepisce grazie alla conoscenza dei codici trecenteschi e della paleografia gotica, anche se queste cose cono utilissime - è innegabile - per uno studio approfondito del grande poema. Se mi trovassi a dover far intendere Dante a persone che non ne sanno assolutamente nulla, penso che dovrei innanzi tutto cercare di farli appassionare a qualche brano di alto valore ma non troppo complesso, e solo in un secondo momento, essendocene la possibilità, si potrebbe pensare di allargare l'orizzonte arrivando magari a spiegare i criteri dell'edizione critica di Giorgio Petrocchi. Nell'Ottocento leggevano la Divina Commedia in edizione piuttosto scorrette, di codicologia sapevano ancora poco, ma Dante lo sentivano eccome, forse anche meglio di noi. E con questo non faccio l'elogio dell'edizione approssimativa, sia chiaro. Se si può averne una filologicamente corretta, tanto meglio. Penso (mi corregga altrimenti) che il discorso possa valere anche per il gregoriano.

rocco ha detto...

" l'iconoclastia perpetrata anche nei confronti della musica"

si doveva fare spazio a chitarre gitane stile kikos e a canzunciell come "amico mio Spirito Santo" o agli spiritual protestanti molto piu primaverili...

Anonimo ha detto...

OT
Segnalo la stazione radio web "musicareligiosa.nl". Il canale propriamente di "musica religiosa" è diventato generalista, ma resta un canale di sola musica per organo:
http://www.musicareligiosa.nl/#orgelradio

Renzo T. ha detto...

Dalla mia esperienza sono convinto che ci possono essere almeno tre livelli per beneficiare ciò che il canto gregoriano trasmette.
Un primo livello è quello riservato alle persone comuni (la stragrande maggioranza dei fedeli, compresi i preti che non sono gregorianisti), ma anche ai musicisti non gregorianisti: se ascoltato con fede (non per il piacere estetico) si medita più attentamente alle parole, ma anche quando le parole sono inintelligibili o non se ne comprende il significato, tuttavia sia sa che la lode divina è la sola ragione di questo canto e questo è sufficiente per ravvivare nel fedele la fede, la spiritualità e la devozione. Questo, anche se con concetti un po' diversi, lo esprime anche San Tommaso (S.Th. II-II, q.83 a. 12; q. 91, a.2, ob. 5).
Poi c'è un secondo livello, più ristretto: quello del gregorianista non teologo il quale, attraverso i segni neumatici in campo aperto (sangallesi, metensi, ma non solo) mentre canta o ascolta un brano gregoriano, viene indirizzato ad una migliore comprensione dell'esegesi del testo, proprio per mezzo di quei segni strani posti sopra o sotto il comune tetragramma con la notazione quadrata. Pertanto, se vuole approfondire meglio quel particolare messaggio della scrittura attraverso quella preziosa indicazione data dai segni adiastematici, potrà documentarsi teologicamente in proprio.
Infine c'è il terzo livello: il gregorianista che è anche teologo o comunque ha compiuto studi teologici. Si tratta di una nicchia nella nicchia, Ma sono i soli a comprenderne subito la magnificenza del messaggio che il canto gregoriano vuole evidenziare in ogni brano. Il gregorianista teologo, non può che essere affascinato da questa grande arte musicale e riesce meglio a comprendere come non si tratti di soli artifici musicali retorici calati sopra un testo, ma si tratta innanzitutto di preghiera al massimo livello, che poi si tratti anche di musica, questo è solo un fattore secondario o accidentale. Questa terza categoria di persone, comprendendo che il canto gregoriano non è musica, ma preghiera pura ed esegesi della Sacra Scrittura, difficilmente potrà apprezzare allo stesso livello del canto gregoriano (e preferirle) le pur belle, e talvolta anche meravigliose, forme musicali successive ad esso che del testo, moto spesso, lo usano come "pretesto" per comporre su di esso musica anche di grande valore.
Ma non si senti menomata la prima categoria di persone, quella più ampia, essa abbia a mente sempre le parole dell'aquinate: "...Anche se costoro non comprendono le parole, sanno tuttavia che la lode divina è la ragione del canto e ciò sufficiente per ravvivare la loro devozione".
Infine, aggiungo io, mai come in cinquant'anni a questa parte si sono fatte tante esegesi della Sacra Scrittura, Mai si sono date alle stampe tante pubblicazioni teologiche, bibliche, morali e quant'altro, sempre abbiamo compreso nelle messe N.O. l'abbondanza di testi letti nella lingua dei carrettieri a tutti comprensibile, le letture Sacre sono lievitate fuori di misura con il "triciclo" festivo e con il "biciclo" feriale, i canti non sono più incomprensibili come il detestato gregoriano, hanno assunto i testi, le melodie e ritmi tanto amati dai giovani e dal mondo, ma mai come in questi ultimi 50 anni le chiese si sono svuotate di fedeli, in modo particolare di giovani, per non parlare degli ordini religiosi anemizzati nei loro professi. Allora significa c'è qualcosa che non va...