Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

mercoledì 4 novembre 2015

Thomas Michelet O.P. Che cosa dice veramente il sinodo sui divorziati risposati?

Riprendiamo da Sandro Magister [qui], l'ennesimo qualificato contributo al dibattito sul Sinodo caratterizzato dalle letture contrastanti e il cui esito può ben dirsi 'voluto', se P. Adolfo Nicolás Pachón, il preposito generale dei gesuiti che papa Francesco ha incluso nella commissione incaricata di scrivere la "Relatio" finale, l'ha apertamente rivendicato come un successo, ad assise appena conclusa, con la seguente dichiarazione : "Nella mente di tutti, in commissione, c'era l'idea di preparare un documento che lasciasse le porte aperte: perché il papa potesse entrare e uscire, fare come crede".
Si tratta di elementi già da noi notati e presi in considerazione, ma qui confermati e utilmente riuniti e sistematizzati.

Che cosa dice veramente il sinodo sui divorziati risposati?
Thomas Michelet O.P.

Non sarà sfuggito a nessuno che la questione dei "divorziati risposati" (che bisognerebbe piuttosto chiamare "separati reimpegnati") è stata quella più aspramente discussa durante tutto questo sinodo sulla famiglia, sia dai padri sinodali che dai fedeli e perfino dal grande pubblico, conquistando anche regolarmente le prime pagine dei giornali, una cosa non vista da tanto tempo. Insomma, poche tematiche hanno suscitato altrettanto interesse.

La complessità del dibattito si riflette nei documenti ufficiali, essendo i punti direttamente riguardanti la materia quelli che ogni volta hanno raccolto il minor numero di voti positivi, nonostante la successione di stesure orientata a raggiungere un ampio consenso. Ma ciò si ritrova anche nelle valutazioni quanto mai contraddittorie dei media, che proclamano a seconda dei casi la vittoria di un campo o dell’altro, o per rallegrarsene o per rammaricarsene: gli uni ritenendo l’accesso caso per caso dei divorziati alla comunione come l'inaugurazione di una tranquilla rivoluzione verso una nuova Chiesa; gli altri notando invece la sua clamorosa assenza nel documento finale e quindi il fermo mantenimento dello "status quo ante".

Ma non contrapponiamo troppo in fretta il "sinodo dei media" a quello reale e ammettiamo onestamente che questo conflitto d’interpretazione trova la sua fonte, almeno in parte, nella stessa formulazione del testo, che su questo punto preciso manca della chiarezza e della precisione che si sarebbe potuta auspicare dopo due anni di lavori. Come avevamo anticipato in luglio su www.chiesa, si può temere che parecchi padri sinodali si siano ritenuti soddisfatti di questo punto di accordo per motivi al fondo diversissimi, e perfino opposti, poiché il testo consente di farne diverse letture e di coprire una divisione che malgrado tutto permane e che rischia da qui in avanti di crescere, se non si fa piena luce.

1. Un consenso difficile

Tutti ricordano che nella "Relatio synodi" del 18 ottobre 2014, il paragrafo 52 sull’accesso dei divorziati risposati ai sacramenti della penitenza e dell’eucarestia nonché il paragrafo 53 sulla comunione spirituale erano stati ampiamente bocciati, non avendo raggiunto la maggioranza dei due terzi, cioè 122 su 183 padri sinodali (n. 52: 104 placet e 74 non placet; n. 53: 112 placet e 64 non placet). A questi due paragrafi bisogna aggiungere quello sulla pastorale delle persone ad orientamento omosessuale (n. 55: 118 placet e 62 non placet). Tuttavia questi paragrafi formalmente respinti si sono ritrovati mantenuti nel testo ufficiale che ha fatto da documento di lavoro per il seguito del processo sinodale, sicuramente per favorire una franca discussione che non occultasse nessuna difficoltà.

Nell’"Instrumentum laboris" del 23 giugno 2015, sotto il titolo "la via penitenziale", il paragrafo 122 riprendeva il precedente paragrafo 52 aggiungendovi un paragrafo 123 che esordiva con la sorprendente affermazione che "c'è un comune accordo sulla ipotesi di un itinerario di riconciliazione o via penitenziale". Ci si è allora chiesti che cosa fosse questo misterioso accordo. Tanto più che la maggioranza dei padri sinodali riuniti nel 2015 sembra piuttosto aver espresso larghe riserve in merito, col risultato che l’ipotesi alla fine neppure è stata adottata, almeno con questa formulazione.

Nella "Relatio synodi" del 24 ottobre 2015, i paragrafi 84 a 86 ormai espongono una proposta pastorale nuova sotto il titolo: Discernimento e integrazione". Essendo cresciuto a 265 il numero numero dei padri sinodali presenti, la maggioranza dei due terzi è diventata 177 ed è stata raggiunta con difficoltà nel caso di questi tre paragrafi, in un caso persino per un solo voto (n. 84: 187 placet e 72 non placet; n. 85: 178 placet e 80 non placet; n. 86: 190 placet e 64 non placet).

La "Relatio synodi" 2015 fornisce tre riferimenti magisteriali, tutti e tre contenuti nel paragrafo 85 e già presenti nella "Relatio synodi" 2014 e nell’"Instrumentum laboris": "Familiaris consortio" n. 84; Catechismo della Chiesa cattolica n. 1735; Dichiarazione del 24 giugno 2000 del pontificio consiglio per i testi legislativi. Invece, il documento del 14 settembre 1994 della congregazione per la dottrina della fede, a cui si accennava nel n. 123 dell’"Instrumentum laboris", non è stato ripreso.

2. La citazione di "Familiaris consortio"

Esaminiamo per prima cosa la citazione di "Familiaris consortio" n. 84 :
"Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C’è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido".
Questo testo è qui presentato come "un criterio complessivo, che rimane la base per la valutazione di queste situazioni", sia per il prete il cui compito è di "accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento", sia per il fedele, nel proprio "esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento".

Se si parla di pentimento, questo implica la necessità di riconoscere le proprie colpe e il proprio peccato allo scopo di ottenerne il perdono. Non è giusto, quindi, affermare che ogni nozione di peccato è messa da parte, in questo documento. Resta però il fatto che essa non è più formulata nel titolo della proposizione, che ormai non parla più in modo diretto di penitenza ma di discernimento; e si può rimpiangere questa assenza sul piano dottrinale anche se è sicuramente più simpatica sul piano pastorale. Inoltre è possibile che ci sia una tendenza a comprendere il pentimento più per colpe del passato (la Chiesa che fa penitenza per i peccati dei suoi membri), mentre la penitenza riguarda più spesso situazioni passate ma anche presenti (e perfino il peccato di altre persone), per ottenere la conversione del peccatore e la riparazione del male provocato dalla sua colpa. La scelta della parola "pentimento" rischia quindi di portare a considerare le seconde nozze dopo un divorzio soltanto come una colpa del passato piuttosto che come una "situazione oggettivamente disordinata" sempre attuale, o persino a esaminare solo le colpe del passato che avrebbero portato a questa situazione ritenuta non voluta per se stessa e quindi non colpevole. Per quanto riguarda questo processo, sia nella sua comprensione sia nella sua pratica, bisogna quindi essere capaci di un vero "discernimento semantico".

D’altra parte, "Familiaris consortio" n. 84, pur ricordando la necessità di distinguere queste diverse situazioni, ne traeva una identica conclusione in tutti casi: l’impossibilità di fare la comunione, a meno che si "regolarizzi" la propria situazione, in un modo o in un altro:
"La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio.
"La riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l'educazione dei figli – non possono soddisfare l'obbligo della separazione, «'assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi'".
Cosa si può ricavare dalla mancata ripresa esplicita nel documento di questa conclusione pur così forte della "Familiaris consortio"?

In una "ermeneutica della continuità", si riterrà che il silenzio equivale a un consenso, che la citazione di un testo rimanda al testo intero, il quale fornisce alla citazione il suo vero contesto. Pertanto un tale processo di discernimento può portare all’eucarestia solo in quanto il fedele è veramente arrivato a uscire da questa situazione oggettivamente disordinata tramite un impegno mantenuto da un fermo proposito, ha potuto così chiedere il perdono delle sue colpe e finalmente riceverne l'assoluzione. Fino a questo punto, non può fare la comunione.

In una "ermeneutica di rottura", si riterrà che il silenzio equivale a un dissenso. Se la conclusione della "Familiaris consortio" non è ripresa espressamente, questo significa che è divenuta obsoleta; il contesto familiare essendo stato totalmente modificato da allora, al termine di un cambiamento che il documento definisce non solo culturale ma anche"antropologico". Quella che era la disciplina della Chiesa ai tempi di Giovanni Paolo II non dovrebbe esserlo più nella nuova Chiesa che si invoca. Si concluderà probabilmente che questo processo di discernimento può portare all’eucarestia, anche senza cambiamento di vita, purché la persona si sia pentita delle colpe passate ed abbia giudicato che può "in coscienza" fare la comunione.

3. Il Catechismo della Chiesa cattolica

Lo stesso paragrafo 85 della "Relatio synodi" 2015 cita più avanti il n. 1735 del Catechismo della Chiesa cattolica:
"Inoltre, non si può negare che in alcune circostanze 'l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate' (CCC, 1735) a causa di diversi condizionamenti".
La citazione è incompleta. È opportuno riandare al testo integrale:
"1735. L'imputabilità e la responsabilità di un'azione possono essere sminuite o annullate dall'ignoranza, dall'inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali".
Questo paragrafo è davvero applicabile alla situazione dei divorziati risposati? Bisogna notare anzitutto che le stesse condizioni si ritrovano in parte per quanto riguarda il matrimonio, e sono condizioni che lo rendono invalido:
"1628. Il consenso deve essere un atto della volontà di ciascuno dei contraenti, libero da violenza o da grave costrizione esterna [Cf. Codice di Diritto Canonico, 1103]. Nessuna potestà umana può sostituirsi a questo consenso [Cf. ibid., 1057, 1]. Se tale libertà manca, il matrimonio è invalido".
Si può immaginare, allora, che qualcuna di tali circostanze possa rendere non imputabili sul piano morale le nuove nozze dopo un divorzio? Se questo fosse il caso, queste nuove nozze sarebbero pertanto invalide. Certo, già lo sono perché, essendo il matrimonio indissolubile, non sono possibili seconde nozze mentre il primo coniuge è ancora in vita. Ma sarebbero nulle non solo come matrimonio: lo sarebbero anche come atto umano, sarebbero un "atto mancato". Pertanto non si potrebbe più parlare di divorziati risposati: non ci sarebbe quindi nessun nuovo impegno vero, e nessun tipo di legame tra le due persone. In queste condizioni, non è sicuro che si voglia sempre far valere la possibilità di una eliminazione totale dell’imputabilità. E poi tali condizionamenti psichici dovrebbero per prima cosa condurre a rimettere in questione l’esistenza dello stesso legame sacramentale. La situazione sarebbe allora del tutto differente.

Viceversa, quando le persone sono capaci di scambiare un "sì" per la vita con la piena coscienza di ciò che stanno facendo, non possono non rendersi conto che stanno portando un colpo contro questo "sì" con il loro nuovo impegno con un altra persona. Pertanto, non si capisce come la responsabilità di tale atto di reimpegno possa essere rimessa in discussione. Certo, possono esistere tanti tipi di motivi che incitino ad agire così, come lo dice più avanti il paragrafo 85: "In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso". Ciò non toglie che o sanno di colpire il loro legame matrimoniale con il loro reimpegno, e si tratta allora di un atto libero e responsabile; oppure non lo sanno per niente, e si può allora dubitare della stessa esistenza del loro legame matrimoniale.

4. La Dichiarazione del Pontificio consiglio per i testi legislativi

L’articolo 85 della "Relatio synodi" 2015 prosegue così:
"Di conseguenza, il giudizio su una situazione oggettiva non deve portare ad un giudizio sulla 'imputabilità soggettiva' (Pontificio consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000, 2a)".
Il testo di cui si tratta è il seguente, ricollocato nel suo contesto:
"2. Qualunque interpretazione del can. 915 che si opponga al suo contenuto sostanziale, dichiarato ininterrottamente dal Magistero e dalla disciplina della Chiesa nei secoli, è chiaramente fuorviante. Non si può confondere il rispetto delle parole della legge (cfr. can. 17) con l’uso improprio delle stesse parole come strumenti per relativizzare o svuotare la sostanza dei precetti.
"La formula 'e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto' è chiara e va compresa in un modo che non deformi il suo senso, rendendo la norma inapplicabile. Le tre condizioni richieste sono:
  1. il peccato grave, inteso oggettivamente, perché dell’imputabilità soggettiva il ministro della Comunione non potrebbe giudicare;
  2. l’ostinata perseveranza, che significa l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc.) perché si verifichi la situazione nella sua fondamentale gravità ecclesiale;
  3. il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale.
"Non si trovano invece in situazione di peccato grave abituale i fedeli divorziati risposati che, non potendo per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – 'soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi' (Familiaris consortio n. 84), e che sulla base di tale proposito hanno ricevuto il sacramento della Penitenza. Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla comunione eucaristica solo 'remoto scandalo'".
Questa Dichiarazione del pontificio consiglio per i testi legislativi stabilisce quindi che le seconde nozze dopo un divorzio sono una situazione di "peccato grave abituale", presa in considerazione dal canone 915 per quanto riguarda "quelli che ostinatamente perseverano in un peccato grave manifesto". Il passo citato dalla "Relatio synodi" specifica che tale qualificazione va intesa oggettivamente e non soggettivamente, "perché dell’imputabilità soggettiva il ministro della comunione non potrebbe giudicare". In altre parole, la situazione è valutata in foro esterno, perché non si può accedere al foro interno. Ebbene, nel contesto della "Relatio synodi", questo passo sembra prendere un altro senso: non si può giudicare sulla "colpevolezza soggettiva", e quindi bisognerebbe astenersi dal qualificare questa situazione moralmente. Certo, il testo non arriva a questo espressamente, però chi non si prende la pena di riandare al testo della Dichiarazione può capirlo in questo modo. E comunque il testo non dice da nessuna parte che si tratti di un peccato né che il Cristo qualifichi come adulterio le nuove nozze mentre il primo coniuge è ancora in vita (cfr. Mc 10, 11–12). Questa parola può essere dura da sentire, ma si trova proprio sulla bocca del Cristo, che ne misura tutta la portata.

Anche in questo caso, una "ermeneutica della continuità" porterà a interpretare questo testo precisando ciò che non dice e mantenendo la qualifica di "peccato grave e manifesto"; mentre una "ermeneutica di rottura" prenderà spunto da questo silenzio per attenersi all’astensione di giudicare in termini di colpevolezza soggettiva, il che porterà a eliminare qualsiasi qualificazione di questa situazione in termini di peccato, che sia grave e manifesto o no.

Nel primo caso, quindi, si terrà fermo, alla luce dell'enclica "Veritatis splendor", che le seconde nozze dopo un divorzio sono un atto cattivo che in qualsiasi circostanza non si può mai volere, nel quadro di una morale dell’oggettività e della finalità. Nel secondo caso, si acquisirà l’invito a convertire la propria visione pastorale e a tenere maggiormente conto delle circostanze, e quindi a modificare l’equilibrio dottrinale della "Veritatis splendor", facendo appello a una morale della soggettività e della coscienza. Il papa ha garantito che non si è mai toccata la dottrina, il che inclina al primo senso. Difatti, di riferimenti al magistero ve ne sono abbastanza per rafforzare i sostenitori dell’ermeneutica di continuità nella loro lettura. Ma ci sono anche abbastanza silenzi e segnali positivi perché i sostenitori dell’ermeneutica della rottura si sentano giustificati nel loro approccio nuovo. In assenza di ulteriori precisazioni, le due interpretazioni sembrano consentite.

Concludendo l'analisi di queste tre citazioni, tali lacune nella formulazione probabilmente spiegano perché questo paragrafo 85 sia stato quello che ha raccolto il numero più grande di non placet, e che sia stato approvato con un unico voto in più della maggioranza richiesta. Ma è possibile che ulteriori precisazioni in un senso o nell’altro gli avrebbero fatto perdere qualche voto in più; uno solo dei quali sarebbe bastato perché finisse respinto.

5. Accompagnamento e integrazione

Per quanto riguarda il paragrafo 84, esso presenta la "logica dell’integrazione" dei divorziati risposati come "la chiave del loro accompagnamento pastorale", che mira a manifestare non solo che non sono scomunicati, ma che possono vivere e crescere nella Chiesa, superando le "diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale". Il paragrafo 86 colloca infine il "giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa" sul terreno del discernimento col prete in foro interno; "questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa".

Interpretati nel quadro di una "ermeneutica della continuità", questi due paragrafi appaiono perfettamente ortodossi e conformi al recente magistero. La citazione della "Familiaris consortio" n. 84 e della Dichiarazione del pontificio consiglio per i testi legislativi permette di comprendere questa crescita come una conversione progressiva alla verità evangelica, di cui ciascuno cercherà di tradurre progressivamente tutte le esigenze nella propria vita. Una pastorale dell’accompagnamento dovrà sempre mirare alla piena riconciliazione del fedele e alla sua riammissione finale all’eucarestia, secondo le condizioni indicate da "Familiaris consortio" n. 84 per porre fine a quella "contraddizione oggettiva con la comunione d'amore tra il Cristo e la Chiesa" che rappresenta il nuovo impegno con una persona diversa dal coniuge legittimo, e che il Codice di diritto canonico definisce in foro esterno "peccato grave e manifesto". Qui c’è un vero cammino di santità, delineato con belle parole dalla fine del paragrafo 86, che parla delle "necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa". Il riconoscimento dell’integrazione nella Chiesa si farebbe quindi in riferimento all’"ordine dei penitenti", come si sarebbe detto in tempi antichi, con limiti nell’esercizio delle diverse funzioni ecclesiali che andrebbero interpretate tenendo conto dell’oggettività della situazione disordinata e potrebbero essere tolte a seconda della regolarizzazione di tale situazione.

Nel contesto di una "ermeneutica della rottura", invece, essendo queste condizioni e conclusioni del magistero anteriore passate sotto silenzio in questo testo, si tenderà a privilegiare la relativa novità costituita dalla valorizzazione del foro interno, a scapito del foro esterno. Si arriverà così a una morale della soggettività, piuttosto che dell’oggettività, con la difficoltà di ammettere assieme a "Veritatis splendor" la possibilità di "atti intrinsecamente cattivi"; l’accento essendo posto sopratutto sulla coscienza e sulla percezione interna dei diversi atti, decisioni e circostanze. In queste condizioni, poco importa che il Codice di diritto canonico qualifichi questa situazione come "peccato grave e manifesto", se non è percepita internamente come tale. Anzi, sarebbe meglio tacerlo, invece di invadere lo spazio interno della libertà e il santuario inviolabile della coscienza. Bisognerà quindi aspettare che la persona sia in grado di definire da se stessa questi atti, senza mai intervenire nel processo per paura di ferirla o di forzare la sua libera progressione. Qui si tratta più di una "libertà d’indifferenza" che di una "libertà di qualità". L’accompagnamento si farebbe partendo dalla persona e da ciò che in essa potrebbe essere valorizzato per farla crescere, piuttosto che partendo da una legge imposta dall’esterno alla quale questa persona dovrebbe conformarsi. L’integrazione nella Chiesa dipenderebbe dalla soggettività della persona e dalla sua percezione interna della propria situazione. In queste condizioni, se questa persona decide "in coscienza" che non ha commesso un peccato e che può fare la comunione, chi siamo noi per giudicarla? Il progresso spirituale potrebbe manifestarsi inoltre, paradossalmente, con un movimento di ritiro, man mano che il soggetto percepisce il proprio peccato o il disordine oggettivo: prendendo la decisione di non fare più la comunione perché ne capisce soltanto allora il motivo; rinunciando a certi compiti nella Chiesa perché ne capisce soltanto allora la possibile testimonianza negativa pubblica, riguardo all’"esempio che offrirebbe ai giovani che si stanno preparando al matrimonio".

Queste due logiche sono presentate qui in opposizione; non è tuttavia escluso che si possano trovare nell'una e nell'altra aspetti positivi e limiti; da lui l'interesse di metterle in prospettiva; l'errore stesso potendo servire a manifestare di più la verità. Il limite della pura logica dell’oggettività si trova nella considerazione che ci vogliono tempo e varie tappe per raggiungere la verità, perché questa verità sia recepita non solo come vera in sé ma anche come vera per sé, desiderabile e buona, e finalmente possibile da vivere e fruttuosa. Il limite della pura logica della coscienza si trova nell’affermare la possibilità di una coscienza erronea e nella necessità evangelica di liberarla da questo errore, perché diventi ciò che è, veramente libera, in atto e non solo potenzialmente: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv 8, 32).

Notiamo infine una certa inquietudine per quanto riguarda la terminologia del paragrafo 84, che contrappone "esclusione" a "integrazione". Tale terminologia non è abituale in teologia. È tipica, invece, dell’ideologia egualitarista che anima in particolare i movimenti LGBT e il liberazionismo in generale, su un vecchio sfondo di dialettica marxista, con una tendenza nuova nichilista. Non è più la lotta di classe, ma l’abolizione di tutte le classi, differenze, categorie, statuti… e dunque la scomparsa della vera giustizia che dà ad ognuno secondo la sua parte ("suum cuique tribuere"), che non è necessariamente la stessa per tutti, perché le situazioni non sono necessariamente le stesse. Se si comincia ad ammettere questo tipo di contrapposizione mondana in un documento ecclesiastico, è porta aperta ad altre categorie di popolazione (persone con tendenze omosessuali, donne rispetto al clero maschile, ecc.) che verranno a lamentare la loro "esclusione" al fine di rivendicare la loro piena "integrazione" nella Chiesa. Sarebbe quindi opportuno esprimere in un altro modo la ricerca di comunione nei confronti delle persone che non sono attualmente in piena comunione con la Chiesa, a motivo di una situazione oggettivamente disordinata che rende impossibile la loro ammissione all’eucarestia, e riaffermate piuttosto la carità che ci urge a fare di tutto per portarli in verità alla piena comunione ecclesiale, in conformità alle esigenze evangeliche.

6. Comunione e decentralizzazione

La "Relatio synodi" in quanto tale non ha nessun valore magisteriale, è solo un documento consegnato al papa perché prenda lui una decisione. Si può quindi sperare che in una esortazione apostolica post–sinodale, il papa determini con chiarezza la linea da tenere. Oppure che un documento della congregazione per la dottrina della fede fornisca le precisazioni necessarie, ad esempio sotto la forma di un richiamo della giusta interpretazione dei documenti magisteriali, secondo una ermeneutica della continuità.

In mancanza di questo, cosa potrebbe succedere? Tutti quanti potranno rientrare a casa soddisfatti, sicuri di aver ottenuto ciò che volevano e di aver evitato il peggio, invocato dal campo avverso. Ora, un accordo ottenuto su fondo di ambiguità non fa una unità: piuttosto copre una divisione. Le pratiche pastorali già esistenti potranno proseguire a esistere e a svilupparsi, le une su un fondo di ermeneutica della continuità e le altre su un fondo di ermeneutica della rottura. Il rinvio alla decisione pastorale di ogni prete e fedele "in coscienza" consentirà di stabilire, con documento a sostegno, una grande varietà di soluzioni pastorali, le une pienamente conformi all’ortodossia e all’ortoprassi, le altre più discutibili.

In definitiva, se in un paese i preti incoraggiati dalle "linee guida" del proprio vescovo finiscono con lo stabilire delle pratiche pastorali identiche, ma divergenti con quelle di altri paesi, ciò potrebbe condurre a uno scisma di fatto, legittimato per ambedue le parti da una doppia lettura possibile di questo documento. E si arriva così a quello che avevamo già presentato in luglio come una situazione da temere, se il sinodo non fosse riuscito a definire una linea chiara. Ci siamo.

Nella festa dei santi apostoli Simone e Giuda
28 ottobre 2015

5 commenti:

Marco P. ha detto...

La lezione del Vaticano II insegna che documenti con linguaggio ambiguo, ambivalente, sono buoni per ogni interpretazione, ma alla fine prevale sempre l’interpretazione eterodossa, erronea perché bonum ex integra causa malum ex quocumque defectu,
quindi è sufficiente lo scostamento anche minimale dalla purezza e dalla completezza monolitica e della Verità ed ecco che l’erosione del Dogma inizia, nelle singole coscienze, ed il tarlo dell’errore alla fine corrompe, inevitabilmente il tutto. Ed il male dal cuore delle persone, in ragione dell’unità antropologica, fuoriesce e si materializza negli atti esterni, sensibili e da lì dilaga nel mondo. Ecco allora che un linguaggio che non sia l’evangelico “si si no no” è da evitare come la peste, perché “viene dal maligno”, che è insuperabile maestro di divisione, di confusione, di caos per giungere da qui ad una creazione a sua immagine (ordo ab chao).
L’articolo conclude dicendo che “ciò potrebbe condurre a uno scisma di fatto” dove il “ciò” sono pratiche pastorali divergenti in funzione dell’ordinario del luogo, le quali a loro volta trarrebbero la loro ragione dallì’ambivalenza sopra riportata. A parte che come riconosciuto da più parti, ed anche nell’articolo, il documento ambivalente è puramente consultivo e la parola finale spetta al Papa, quindi chi si appoggiasse al documento come giustificazione per atti esecrabili compirebbe un doppio abuso (riferirisi ad documento consultivo e compiere un atto esecrabile, in ordine inverso di gravità crescente, ovviamente), sarà da attendere la esortazione post-sinodale o altro documento equivalente che sia del Papa o dell’ex Sant’Uffizio.
Se l’ambiguità sarà vinta occorrerà vedere in che direzione, ma questo porterà allo scisma non “di fatto” ma conclamato, a meno di interventi prodigiosi. Se viceversa ancora sarà mantenuta l’ambiguità, si ritorna alle considerazioni di sopra circa l’origine della stessa e le sue ragioni. Io penso che questo sia lo scenario più plausibile perché nella confusione ci si maschera meglio però è vero che questo porta ad uno scisma “di fatto”, nei fatti, nella prassi perché è su questo piano che i nuovi ariani si muovono, credendo di riuscire nei loro inganni, ma chi di prassi ferisce, di prassi perisce.

Anonimo ha detto...

Che vi sia una chiara volontà di molti padri sinodali e del loro dante causa Bergoglio di dare il via alla anarchia ed alla acefalia nella chiesa cattolica favorendo di fatto una indipendenza scismatica delle varie conferenze episcopali fino alle singole diocesi è una evidenza di intenti palesemente dichiarata e non serve neppure leggere con tanta perizia la relatio del sinodo scellerato, basta ascoltare le "solite" uscite del sudamericano in diretta TV e su tutti i giornali.

Anonimo ha detto...

Veri colpi da gran maestro, fatti esplodere ad orologeria, interviste scandalose dirette in mondovisione od inedite, sussurrate al telefono a personaggi inquietanti, prima fuoriuscite, poi negate dalla sala stampa vaticana, infine ridimensionate, mezze verità, come le citazioni parziali di encicliche, ad uso e consumo del documento sinodale che vogliono inevitabilmente portare ad una doppia lettura del documento stesso. Ecco la parola chiave di questo pontificato: doppia lettura di ogni atto, parola, gesto, documento, non più unità, ma divisione ed ecco quindi le "porte aperte" per fare entrare ed uscire chiunque, in qualsiasi momento, opportuno e non, come l'ecc. ecc. del motu proprio, l'avvio della Nuova, falsa chiesa, per chi vorrà farne parte. Chi sogna, spera ancora in una esortazione apostolica post-sinodale, in cui il Papa determini con chiarezza le linee da seguire.

RR ha detto...

Infatti, Marco P., è verosimile che Bergoglio non scriverà alcun documento postsinodale, perchè o dovrebbe scriverlo (farlo scrivere) sec. la dottrina ed i documenti di altri papi ("Familiaris consortio" su tutti), ed allora i suoi dante causa lo "abdicherebbero" in men che non si dica (e forse han già cominciato), o scriverebbe un documento eretico, che porterebbe non allo scisma, ma alla sua decadenza.
Non scrivendo nulla, ma parlando soltanto ("verba volant, scripta manent") lascerà che ognuno si regoli come crede: de facto sarà la fine della Catholica in quanto tale, de iure non cambierà nulla.
Avremo il turismo dei divorziati risposati che, non riuscendo a comunicarsi nella propria parrocchia, cominceranno il giro delle sette chiese fino a trovare un prete, magari tedesco, che li comunichi senza se e senza ma. L'industria del turismo ringrazierà sentitamente.
RR

Anonimo ha detto...

Rete 4 in questo istante..... a capo il card.Pell ...miliardi... se c'erano dubbi ora non più.