Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 31 gennaio 2011

19 febbraio. Convegno a Firenze sul Vaticano II: perché tanti abusi post-conciliari?



Il giorno 19 febbraio 2011, alle 17,30, si terrà a Firenze, nel Cenacolo del Ghirlandaio (Borgo Ognissanti 42 - 50123, presso la Chiesa di Ognissanti), un interessante convegno sul Concilio Vaticano II:
Il Vaticano II nell'ermeneutica della continuità.
Perché tanti abusi post-conciliari?
Intervengono:
Prof. Pietro de Marco (Università di Firenze)
Prof. p. Serafino M. Lanzetta (S. T. Immacolata Mediatrice)
Prof. Roberto de Mattei (Università Europea di Roma)
Dr. Alessandro Gnocchi (scrittore, giornalista de "Il Foglio")
Alle ore 16,30 sarà celebrata nella Chiesa di Ognissanti la S. Messa in Rito romano antico

Invitiamo tutti i nostri lettori a partecipare

giovedì 27 gennaio 2011

Ermeneutica conciliare. Il problema metodologico dell'approccio.

Un convegno a Milano (aprile 2010) per la presentazione del libro di John W. O’Malley gesuita, docente alla Georgetown University di Washington: Che cosa è successo nel Vaticano II, edito da Vita e Pensiero, ha consentito di dichiarare:
"Paradossalmente proprio le spinte che sembrerebbero mettere in discussione il senso dell’evento conciliare nella vita della Chiesa ne stanno forse rivelando tutta la fecondità. Chi tocca il Concilio ha come effetto quello di rafforzarne ed evidenziarne il radicamento nella coscienza della Chiesa".
Dobbiamo constatare dunque che i dibattiti rigorosamente paralleli rischiano di protrarsi all'infinito e senza costrutto. L'asse principale intorno al quale girano tutte le discussioni è l'ermeneutica. Molti fedeli interpreti dello "spirito del concilio" insistono sulla impossibilità di dissociarsi e dunque opporre la lettera e lo spirito del concilio stesso perché, sostengono, ciò è coerente con l'opzione fondamentale che ha caratterizzato la sua forma di espressione "epidittica" cioè il "suo carattere pastorale", che ha implicato l'uso di un linguaggio dialogico ed esortativo anziché "apodittico", cioè dimostrativo. Si è privilegata la 'descrizione' mettendo insieme una serie di elementi la cui coesione, alla fine, si rivela apoditticamente artificiale, estromettendo la 'dimostrazione' e quindi la 'prescrizione'. Il risultato, paradossale, è che ora ci si trova di fronte ad un insieme che ha fatto della sua disinvolta 'descrittività' con intenti pastorali qualcosa di intoccabile e rigidamente prescrittivo. Un ingranaggio, che non esiterei a definire perverso e difficilmente smontabile finché ci saranno molti improvvidi custodi ad ungerne le ruote.


Fermarsi ad una visione del genere porterebbe all'impossibilità di far chiarezza nella confusione, che ormai regna sovrana, anche perché chi ci è dentro mani e piedi neppure se ne accorge, anzi ci si avviluppa sempre di più.

Il Convegno di Roma dello scorso dicembre ha dimostrato, invece, la possibilità -anzi la necessità- di non doversi prendere il concilio come "un blocco unico" né come "evento mitizzato ed intoccabile", e quindi non tutto infallibile...

In definitiva, ci si chiede se la ragione principale per la quale la questione dell'interpretazione sfocia su una querelle senza fine non risieda specificamente nella natura stessa di ciò che è interpretato, cioè nell'insieme dei testi e dell'avvenimento del Vaticano II in ciò che essi hanno di confuso e di atipico; ma è una domanda che esige una risposta, implicita nel fatto che ciò che è confuso e atipico non può e non deve aver posto nella Chiesa Mater et Magistra. Ci soccorre l'affermazione di p. Lanzetta che nella difficoltà ermeneutica si nasconde la carenza della metafisica che è problema di forma e di sostanza: la modernità fa perdere chiarezza accusando il dogmatismo normativo, ma accantonare la metafisica è significato accantonare la fede che è messa in un angolo.

E' importante prendere in considerazione il fatto, puntualmente registrato da Fides Catholica, che le prime risposte critiche che sono venute al convegno, evidenziano però un problema d'approccio metodologico, non solo ad autorevoli testi più recenti (sia quello del Prof. De Mattei che quello di Mons. Gherardini) quanto, più in generale, alla questione "Concilio Vaticano II".

Per questa ragione inserisco, tra i Documenti messi a disposizione per arricchire la consultazione nella colonna a sinistra in alto del blog, un testo del Prof Giovanni Turco: Concilio Vaticano II: il problema metodologico dell'approccio, perché centra un importante problema dell'ermeneutica, così sentita e invocata da tutti, ma fortemente legata all'approccio ai testi conciliari e alle loro ricchezze e/o asperità determinato dalla forma mentis dell'interprete. Fides Catholica, da cui ho preso lo scritto, così efficacemente sintetizza: "... L'Autore del saggio, ricercatore all'Università di Udine, riconduce i possibili approcci a tre modelli:
  1. quello della prassi;
  2. quello fenomenico-sociologico;
  3. quello ontologico o della verità. Solo quest'ultimo, spiega, è capace di porsi in dialogo con questi due libri."
Anticipo qui i brani conclusivi:
[...] "Se la fede (cristiana) è rationabile obsequium ed è una fides quaerens intellectum, essa esige di essere pensata in termini teoretici (ovvero in termini di verità essenziale). Il prassismo o il fenomenismo (pur con le migliori intenzioni, che, del resto, non rilevano sotto il profilo del valore dei giudizi) non consentono – proprio perché tali – di pensarla in termini di verità.

D’altra parte, se alcuni documenti e atti pongono problemi, perché vi sarebbe obbligo di ignorarli? Rilevare problemi significa incontrare domande che esigono risposte. Ogni opportunità per porre a tema fatti e questioni non può che essere considerata come propizia per l’esigenza di intendere – e quindi di penetrare intellettualmente – andando al di là di ogni opinare. Cercare le risposte, in termini di verità – con sagacia ed con accuratezza, con generosità e con coraggio – costituisce, a ben vedere, l’unica strada autentica, ovvero razionale e teologale, per soddisfare l’esigenza di capire e quindi anche quella di rendere ragione (sotto il profilo storico, filosofico e teologico)."
Buona lettura. E speriamo vengano fuori spunti per alimentare ulteriormente il dibattito.

mercoledì 26 gennaio 2011

Notazioni su uno scritto di Padre Cavalcoli: Vaticano II e Fraternità San Pio X

Ho preso visione della Lettera aperta [consultabile dal link] di p. Giovanni Cavalcoli, mossa dalla relazione di Don Florian Kolfhaus al recente convegno di Roma sul Concilio. Nell'esprimere una certa sopresa - tenendo conto del ruolo istituzionale di Officiale della Segreteria di Stato di Don Kolfhaus - per il fatto che egli sia stato chiamato in causa pubblicamente, vorrei formulare alcune osservazioni, vertenti principalmente su alcuni punti riguardanti la FSSPX, partendo dalla seguente premessa.

Dice p. Cavalcoli:
«Nel contempo lo Spirito Santo, che “rinnova tutte le cose”, la conduce [la Chiesa] alla “pienezza della verità”, non nel senso di insegnarle verità nuove - non nova sed nove -, ma nel senso di conoscere sempre meglio quelle medesime verità, quella medesima Parola che non passa e che lo Sposo ha affidato alla Sposa.»
Io credo che, se fossimo così certi che questo, che è prerogativa della Tradizione che amiamo, è quanto davvero avvenuto nel concilio e per effetto del Concilio, non ci sarebbe alcuna ragione per tutti questi appassionati e anche argomentati dibattiti...

Aggiunge p. Cavalcoli:
«Per questo, insieme con Lei, respingo l’interpretazione sia dei lefevriani che dei rahneriani, i quali vedono nelle dottrine del Concilio una novità che rompe col Magistero precedente, come se il dogma non fosse immutabile, ma soggetto ad un’evoluzione o a mutamento alla maniera modernista, i lefevriani per sdegnarsi di questa supposta rottura, i rahneriani invece per rallegrarsene.»
Il punto di congiunzione tra la Fraternità di San Pio X e Rahner in realtà c'è: nella 'rottura'. Ma non dimentichiamo che Rahner, che insieme ad altri è stato l'anima del concilio, ne è l'artefice; mentre la Fraternità si colloca tra coloro -insieme a noi- che la constatano, senza peraltro assolutizzarla all'intero Concilio, che è stato dimostrato non potersi prendere come "un blocco unico" né come "evento mitizzato ed intoccabile", e quindi non tutto infallibile...

Registro queste affermazioni di p. Cavalcoli, nel passare in rassegna le due posizioni, quella modernista e quella della FSSPX:
«Il Concilio è considerato un “superdogma” dai modernisti, i quali peraltro, spregiatori come sono del vero dogma, si riservano di prendere dal Concilio solo quel che pare a loro o di falsificarne il vero significato, infischiandosi dell’interpretazione del Magistero, esattamente come fanno i protestanti.
I lefevriani, dal canto loro, si sono irrigiditi ad uno stadio della Tradizione superato (anche se sempre valido), precedente a quello del Vaticano II (al 1962, come ha detto scherzosamente, ma non troppo, il Papa), senza rendersi conto che proprio il Vaticano II è testimone infallibile dello stadio più avanzato della Tradizione.»
Mi trovo perfettamente d'accordo con l'affermazione riguardante i modernisti, mentre penso alla percentuale di Chiesa visibile che ricade in questa definizione, perché si tratta esattamente della crisi nella Chiesa non della Chiesa del nostro tempo e del grande disorientamento e oscuramento delle verità di Fede che molti fedeli, che ancora si identificano come cattolici, vivono e soffrono quotidianamente.
Piccola chiosa: il termine 'cattolico' è sempre più desueto nel lessico ecclesiale. Insieme a molti altri (es. Redenzione, Espiazione, Sacrificio, Penitenza e Riconciliazione, Grazia Santificante, Chiesa come Corpo Mistico di Cristo); mentre altre espressioni ormai signoreggiano con sempre maggior forza (es. enfasi sulla "mensa della Parola", equiparazione della Presenza nella Parola a quella nelle Sacre Specie)...

Mi sembra invece riduttivo presentare i "Lefebvriani" come congelati al pre-concilio. Riduttivo, in ragione della loro realtà così inserita nel vivo del tessuto sociale, in altri Paesi piuttosto che in Italia, non solo con la pastorale e la fedeltà al Rito Gregoriano -peraltro prerogativa di molti cattolici che non aderiscono alla Fraternità- ma anche nel campo dell'Educazione. Personalmente, nelle occasioni che ho avuto di confrontarmi con molti di loro, ho trovato persone e sacerdoti aperti e ben consapevoli delle sfide del nostro tempo. Poi, come in ogni realtà ecclesiale, possono esserci frange più 'estremiste'; ma in un momento così delicato non starei a puntare l'attenzione su quelle.

Padre Cavalcoli così si esprime chiamando ancora in causa la Fraternità Sacerdotale San Pio X:
«... il Santo Padre, in vista e nella speranza di accogliere nella pienezza della comunione ecclesiale la Fraternità S.Pio X (i cosiddetti “lefevriani”), ha posto ad essi come condizione l’accoglienza delle “dottrine” del Concilio, ed evidentemente le dottrine nuove, perché i lefevriani non hanno alcuna difficoltà ad accogliere le verità di fede già definite che si ritrovano negli insegnamenti conciliari.»
Riferirsi in modo così sbrigativo ai «cosiddetti "lefevriani"» (sic) [Lefebvriani], significa già posizionarsi in termini antitetici nei confronti della Fraternità Sacerdotale San Pio X, non tanto lefebvriana, quanto cattolica e basta. Essa infatti non si identifica tout court come seguace di Mons. Lefebre, che ne è il fondatore, ma verso la cui figura non c'è alcun atteggiamento di culto della personalità riscontrabile in altri contesti. Inoltre non esiste una 'dottrina' di Lefebvre: le riserve sul concilio espresse dalla Fraternità lo sono in nome della Tradizione cattolica. E, poi, metterla sullo stesso piano dei modernisti, dei quali è più che evidente lo iato rispetto all'alveo della Tradizione, mi sembra francamente improprio ed inesatto, dal momento che le 'novità' del concilio da essa contestate coincidono con i 'nodi' che qualsiasi fedele cattolico può riscontrare, soprattutto nelle loro applicazioni 'pastorali' operate dai novatori, che hanno segnato di fatto l'esistenza di due diverse 'anime' nella Chiesa per effetto di due diverse ecclesiologie. Questo è il cuore del problema.

Se è vero che la Fraternità, dalla sua Fedeltà alla Tradizione, contesta le 'innovazioni' introdotte da alcuni insegnamenti conciliari, non mi pare esatto che il Santo Padre ne subordini la pienezza della comunione ecclesiale ad un pedissequo accoglimento. Egli ha, anzi, accettato e disposto lo svolgimento di colloqui presso la Dottrina della Fede: il che sta a dimostrare che qualcosa da discutere c'è e, soprattutto, che è opportuno discuterne. La consapevolezza su questo ormai penso si sia ormai consolidata. Mi pare di poter cogliere un contrasto tra l'atteggiamento dialogante di Benedetto XVI e questa durezza d'espressione di p. Cavalcoli.

Un'altra considerazione si impone: è vero che la Fraternità accetta la dottrina pre-conciliare - che del resto è propria di ogni cattolico al pari del XXI concilio pur con i suoi 'distinguo' - ma è altrettanto vero che i modernisti la negano, ed è qui la vera 'rottura'.

Afferma inoltre p. Cavalcoli:
«E del resto i Papi del postconcilio hanno più volte detto che il Concilio non è stato solo pastorale ma anche dottrinale»
Ormai le cosiddette "dottrine nuove", sono sufficientemente smascherate e non vengono più passate sotto silenzio per essere forzosamente ricomprese in una fantasmatica "ermeneutica della continuità", proclamata, ma di fatto non ancora dimostrata nei termini in cui abbiamo constatato essa dovrebbe dispiegarsi. Questa è la nostra attuale consapevolezza, che ci fa auspicare con Mons. Schneider: “C’è dunque davvero bisogno di un Sillabo conciliare con valore dottrinale ed inoltre c’è il bisogno dell’aumento del numero di Pastori santi, coraggiosi e profondamente radicati nella tradizione della Chiesa, privi di ogni specie di mentalità di rottura sia in campo dottrinale, sia in campo liturgico.”

Lo stesso card Ratzinger già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile affermava: il Concilio Vaticano II «escogitò di rimanere in un livello modesto, come un semplice concilio pastorale» cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi e che quindi «il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale». Tuttavia, proprio questo "concilio pastorale" – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato «come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili». Del resto, per dirla con Don Kolfhaus, è ormai chiaro che "molti difendono il carattere vincolante e il significato del Vaticano II - che non mancano -, ma solo pochi ricordano i venti concili dogmatici precedenti. È per questo che si registra una sorta di timore di un arretramento rispetto al Concilio e di una sua arbitraria svalutazione. Il nostro contesto e le nostre riflessioni non vogliono arrivare a questo, ma solo far luce sugli eventi, sulla loro portata e significato e su dove ci stanno portando", ovviamente -aggiungo- con l'obiettivo di ritrovare l'alveo della Tradizione, senza la quale non c'è la Chiesa, ma qualcosa d'"altro" e di "oltre"... Altrettanto possiamo dire della posizione dei Lefebvriani i quali, pur con tutti i distinguo di ordine esperienziale e di collocazione canonica determinata dalle complesse e sofferte vicende storiche da cui è scaturita, non si pongono obiettivi diversi.

Infine p. Cavalcoli afferma:
«Indubbiamente resta il problema di sapere con certezza quali sono e dove sono. Qui indubbiamente il Concilio non ce lo dice espressamente e non è neppure sempre chiaro, e qualche volta dà l’impressione di mutare o smentire dottrine di fede già definite. Ovviamente questo è impossibile. Tuttavia qui è bene se non doveroso, per il teologo, dimostrare la continuità. Fanno male e vorrei dire danno scandalo quelli che la mettono in dubbio."
Per dimostrare la continuità bisogna argomentarla partendo dai testi e non semplicemente proclamarla. Quei cattolici, compresa la FSSPX, che cercano di rimanere nell'alveo della Tradizione, non mettono affatto in dubbio la continuità, ma desiderano ritrovarla e ricostruirla nel crogiolo di sfuggente e affascinante colloquialità che, attraverso un linguaggio coinvolgente spesso veicola il vuoto spinto travestito da avventurose sperimentazioni sulla pelle di fedeli che rischiano di continuare ad essere sviati e trasformati in "diversamente-credenti". Ho il timore che, mentre ci avviciniamo a larghi passi ai 'fratelli separati' non più considerati eretici e ormai assurti al rango di "chiese" - quando l'unica vera Chiesa è quella cattolica -, siamo noi ad omologarci a loro e per loro non si pronuncia più la parola "conversione" alla vera Fede, che sussiste pur sempre nella Chiesa cattolica, che ne è la custode in quanto portatrice di una Presenza nella Sua pienezza....

domenica 23 gennaio 2011

Convegno di Roma sul Concilio. P. Serafino Lanzetta, La recezione teologica del Vaticano II - Status quaestionis

Non è il testo integrale della Relazione di p. Lanzetta, ma è più di un semplice estratto, perché mi sembra troppo importante per chi con appassionato interesse sta acquisendo queste autorevoli e approfondite riflessioni.

Già durante l'ascolto ed ora, nel ripercorrerlo e meditarlo con gioia e gratitudine, questo lavoro mi ha aperto molti nuovi 'usci' e piste di riflessione per meglio comprendere e inquadrare le complesse e tormentate vicende di pensiero e d'azione che hanno attraversato la nostra Chiesa nell'ultimo cinquantennio. Lo ritengo una tappa ineludibile per il proseguimento del percorso, così bene sintetizzato dalle parole di p. Lanzetta: «Il nostro convegno non è chiuso con la fine dei lavori. Anzi ora si apre il dibattito, che ci auguriamo possa essere proficuo per una presa sul serio di tutte le problematiche legate al Concilio Vaticano II. Ne parliamo perché si dilegui finalmente quella coltre di silenzio irrispettoso, che spesso ha affossato la fede in nome del Concilio. Vogliamo riscoprire la fede e così il vero Concilio: ciò che veramente quest’assise guidata dallo Spirito Santo voleva essere per il bene della Chiesa. Solo questo abbiamo a cuore».

Il Vaticano II: un concilio e i teologi

Senza dubbio i teologi ebbero al Concilio Vaticano II un ruolo notevolissimo. Battista Mondin asserisce questo dato con forte rilievo:
«A far emergere i teologi in tutta la loro grandezza fu il Concilio, del quale essi furono i principali artefici e protagonisti. La loro presenza al Vaticano II fu massiccia. I periti ufficiali e privati erano più di duecento. Come i Vescovi anche i teologi provenivano da tutte le parti del mondo, e questo contribuì a dare al pensiero “teologico” del Concilio quella cattolicità che gli consentì di superare gli orizzonti ristretti della teologia curiale. L’apporto dei teologi ai lavori del Concilio fu sostanziale, costante e decisivo: i loro pareri furono continuamente ascoltati e le loro proposte accolte. A loro fu affidata la stesura di tutti i testi conciliari che poi furono approvati dai padri. In definitiva si può dire che la teologia del Vaticano II è quella dei teologi che vi hanno partecipato (Parente, Colombo, Congar, Daniélou, Rahner, Ratzinger, Chenu ecc.) […] Il Concilio rappresenta la felice conclusione del grande rinnovamento che aveva avuto luogo nella teologia cattolica dopo la seconda guerra mondiale».
Per R. Laurentin, il problema fondamentale da risolvere nella teologia post-conciliare, in ragione delle istanze del Concilio è la teologia, atrofizzatasi, in quanto lentamente aveva perso il contatto con le fonti della Rivelazione e con la vita, ed era diventata una collezione di un sistema di tesi.
«Il rimedio – dice – veniva dai teologi stessi che lavoravano accanitamente nell’ombra. Il Vaticano II ha dato un riconoscimento di diritto alle acquisizioni di questa corrente che assume in un solo movimento le fonti rivelate e la realtà vivente della salvezza».
In questa conferenza, ci proponiamo di verificare l’apporto dei teologi al Vaticano II. Escludiamo comunque che il Concilio sia risolvibile nel dato teologico, di elevata enfasi o di critica: il Concilio è magistero della Chiesa. È innegabile però il grande ruolo della teologia al Vaticano II, sia in riferimento ai teologi che furono periti e che guidarono le discussioni e in qualche modo le stesse votazioni, sia per il notevole impatto del Concilio nella ricezione teologica post-conciliare. In questa sede, ci limiteremo ad individuare e a studiare sei posizioni, da noi ritenute tipiche e in qualche modo riaffioranti nelle numerose indagini teologiche sul nostro tema. Non pretendiamo così di esaurire lo status questionis del problema, ma unicamente di offrire dei modelli di riferimento ermeneutico molto rilevanti, nel Concilio e dopo, in modo da poter anche derivare degli elementi-chiave per una nostra riflessione finale. Abbiamo scelto sei posizioni teologiche, in modo che si veda, da un lato l’apporto dei teologi-periti, dall’altro la recezione del dato conciliare.

1. Card. Pietro Parente (1891-1986): il Concilio per una Weltanschauung cristiana

In una conferenza tenuta nel 1961 sull’imminente Concilio Ecumenico, Mons. Parente, allora assessore della S. Suprema Congregazione del Sant’Uffizio, tratteggiò gli auspici del Santo Padre Giovanni XXIII, auspici volti a far risplendere di nuova bellezza il volto della Chiesa e più che di un punto o dell’altro della dottrina e della disciplina, trattavasi di ridare valore e sostanza al vivere umano e cristiano (Disc. 14 nov. 1960). Dopo aver tracciato una veloce panoramica sui 20 Concili Ecumenici precedenti, Mons. Parente si soffermò anche sulle finalità e le prospettive del prossimo Concilio,
«condizionate dalla profonda analisi della realtà del mondo moderno. Una guerra brutale e un dopoguerra snervante hanno seminato negli uomini scetticismo e disprezzo per ogni ideologia o istituzione del passato e un senso avventuroso di novità in tutti i settori dello scibile e della vita. In tal modo è scossa la fiducia nella Chiesa, nella verità, anche rivelata, nella legge morale, nella vecchia struttura sociale. Di questo stato d’animo in subbuglio si è avvantaggiata un’ideologia materialistica concretata in una struttura politico-sociale, in cui i valori spirituali sono sostituiti dalla tecnica […]».
Ad una Weltanschauung materialistica e ateistica, a giudizio di P. Parente, il Concilio avrebbe dovuto opporre una «Weltanschauung cristiana opposta a quella materialistica, perché l’umanità divisa e smarrita riprenda la via del suo vero progresso e del fine supremo, a cui l’ha destinata la Somma Sapienza e il Primo Amore».

In un altro saggio, a vent’anni dalla chiusura dell’assise conciliare, scriverà Parente:
«La causa determinante di un Concilio generalmente è una crisi o della Chiesa o del mondo o di ambedue. Il Vaticano II risponde alle esigenze di una crisi interna alla Chiesa e di una crisi del mondo moderno».
Il Cardinale Parente vede il Vaticano II come approfondimento teologico della dottrina cristiana, precisando che le distorsioni della dottrina del Concilio non sono del Concilio ma di una certa teologia nuova, i cui prodromi sono riconducibili agli anni ’40 del 1900.
Così affronta le dottrine conciliari, che si presterebbero all’equivoco, ma che ad un’interpretazione autentica, sia teologica che magisteriale, rientrano nel loro giusto ordine.

a. Il Vaticano II non avalla il cambiamento della sostanza dei dogmi

I documenti del Concilio non autorizzano e non portano in sé all’affermazione di uno sviluppo dogmatico inteso come mutazione sostanziale del dogma e della fede.
«Ora questa affermazione è arbitraria – dice Parente, in riferimento a questo problematica –, perché il Concilio riafferma tutto il contenuto essenziale della dottrina cristiana fondata sulla Rivelazione divina e maturata per secoli, sotto l’azione dei Padri e dei Teologi, sotto l’azione dello Spirito santo e il controllo vigile del Magistero della Chiesa».
L’identità e la perennità del sacro Deposito sono espresse chiaramente nella Dei Verbum (nn. 7-8). Qui si asserisce l’origine divina della Rivelazione la divina, l’ispirazione dei libri sacri, e la necessità di trasmetterla fedelmente. Il n. 8 di DV parla di un progresso della Rivelazione, richiamandosi a S. Vicenzo di Lerins, citato dal Vaticano I. Così dice DV 8:
«Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio».
Da queste parole, spiega Parente nessun lettore saggio e attento potrebbe ricavarne un’ammissione di una evoluzione intrinseca della verità rivelata e delle stesse formule dogmatiche. Eppure, scrive Parente,
«certi Teologi progressisti sostengono che il Vaticano II ha riabilitato l’evoluzione del domma, già condannato al tempo del Modernismo sotto Pio X. […] In conclusione possiamo affermare che le deviazioni post-conciliari sono abusi di lettori disattenti e poco leali, che cercano di giustificare con l’autorità del Concilio i loro errori e le loro incontrollate tendenze. Questo abuso di nota anche per altri punti del Concilio, che a prima vista colpiscono come assoluta novità in contrasto con la Tradizione; ma un’attenta riflessione rimette le cose a posto».
b. La singolarità della Religione cattolica
Anche su questo dato il Concilio presenta delle affermazioni che si prestano a discussioni, specialmente di fronte al carattere singolare della religione cattolica, di cui noi in ragione della Rivelazione divina riteniamo che sia l’unica religione salvifica,
«con diritto divino a guadagnare tutta l’umanità al Regno di Dio e al Vangelo che ne è il codice. Questo giusto sentimento determinò nel Medioevo linguaggio, uso e atteggiamenti, che oggi urtano le coscienze; si pensi alla frase “Cattolicesimo religione di Stato”, con la conseguenza che la Chiesa godeva di ogni privilegio, mentre le altre religioni erano “tollerate” senza facoltà di pubblica professione».
Parente, fa notare, che il soggetto della religione è l’uomo cosciente e libero, che ha diritto di pensare e di scegliere autonomamente il proprio credo, salvo il rispetto dell’ordine sociale e della pubblica moralità. Così il Concilio mette in evidenza un dato oggi irrinunciabile che è la libertà religiosa e la libertà di coscienza. «Gli abusi dell’Inquisizione non si possono giustificare solo col ricorso al diritto divino dell’unica Religione vera, senza considerare la psicologia umana, in cui domina la religione e la libertà».

c. La collegialità

Un altro dato, che al dire di Parente desta scandalo tra i conservatori, è la collegialità, la quale «sarebbe una novità disastrosa che colpisce il Primato del Romano Pontefice!». Invece Parente, che questo tema lo conosceva molto bene, in quanto anche relatore in sede di Commissione dottrinale risponde semplicemente col dire che essa nel suo senso più genuino fu voluta dallo stesso Cristo che fondò il Collegio apostolico con Pietro e gli altri apostoli come membri, i quali partecipano, subordinatamente a Pietro, tutta la Sacra Potestà di Cristo. Il Primato di Pietro non è un dispotismo ma un primato paterno d’amore e di realizzazione della comunione. Il Sacro Romano Impero con la figura di un Imperatore che impersonava tutto il potere del mondo occidentale influì certamente sulla Chiesa, creando una sorta di assolutismo del Romano Pontefice. Questa ecclesiologia, alquanto mortificata durò fino a Pio XII, che nella Mystici corporis, richiamava l’autentica natura della Chiesa e la sua compagine soprannaturale. Il Vaticano II, mentre confermò la dottrina del Vaticano I sull’infallibilità del Pontefice, ne ammorbidì l’assolutismo – per una ragione teologica – facendo luce sulla dottrina della collegialità, richiamando direttamente il concetto di gerarchia intesa come principio sacro della comunione ecclesiale di tutto il popolo di Dio. In questo modo il Concilio favorisce anche l’approfondimento teologico del ruolo dei laici nella Chiesa e la loro partecipazione liturgico-sacramentale alla vita e alla missione della Chiesa, in ragione del loro sacerdozio comune. Così il Vaticano II, richiamandosi direttamente all’esempio di Cristo, mette in luce il concetto di servizio dell’Autorità per edificare la comunione di tutte le membra.

d. Ecumenismo e missionarietà
Il Concilio sul piano ecumenico e missionario tiene ferma la dottrina dell’unicità della Chiesa di Cristo che è la Chiesa Cattolica. Al contempo, però, richiama la necessità di non condannare e rigettare i fratelli da essa separati ma ad instaurare un dialogo con loro al fine di edificare l’unità di tutti i cristiani nell’unica Chiesa. I separati appartengono a Cristo, sono anch’essi sue membra (anche se non in modo pieno).
«Pertanto non solo la S. Sede, ma ogni Chiesa particolare, ogni cristiano deve sentire il dovere, anzi il bisogno, di partecipare al movimento ecumenico e missionario per guadagnare tutti alla vera Fede e al Cuore di Cristo».
Il Concilio voleva essere una fucina di responsabilità missionaria per i fratelli da salvare. Un gesto divino per una Chiesa più viva e più consapevole della sua missione unica e santificatrice per realizzare nel mondo il Regno di Dio

2. Karl Rahner (1904-1984): il Concilio, «l’inizio dell’inizio»
K. Rahner fu un teologo molto influente in tutto il ‘900 teologico ed ebbe un ruolo di grande importanza nel Concilio. Prima, nel 1961, fu nominato solo consultore della Commissione della disciplina e dei sacramenti, poi durante il Concilio fu perito e teologo del Card. König.
Nella conferenza di Rahner tenuta in occasione della solenne cerimonia di chiusura del Concilio Vaticano II nell’Herkules-Saal a Monaco di Baviera (12 dicembre 1965), Rahner anzitutto esalta il ruolo del «consiglio episcopale» e dice:
«è […] difficile prevedere se oggi il principio sinodale-collegiale della Chiesa assumerà anche in futuro esattamente la figura concreta di questo o di precedenti concili, trovando in essa la sua efficace realizzazione, o se invece il consiglio episcopale di recente istituzione riuscirà, qualora non si limiti ad un’azione puramente consultiva, a fare proprie le funzioni e le forme, tanto complesse da non essere quasi ormai più tecnicamente controllabili, dei concili del passato, diventando, nella sua essenza teologica, un vero e proprio concilio, tenuto anzi con frequenza maggiore».
Così Rahner chiarisce anche il suo pensiero teologico del Concilio in relazione alla fede:
«Fu un concilio tenuto nella libertà e nell’amore. Certo in quella libertà che in tutti i Padri si sapeva legata all’inviolabile credo a Dio, a Cristo, alla sua grazia e con ciò ai dogmi che la Chiesa ha fino ad oggi proclamati perennemente validi e, nello stesso tempo, storicamente evolventisi nella concezione della fede. Fu però un concilio nella libertà».
Libertà è per Rahner la capacità che il Concilio ha dato a tutti di sostenere la propria tesi e di arrivare così all’unità (ai consensi) ma nel rispetto della libertà, e tutto questo considerando il Concilio «alla luce della storia dello spirito». Infatti,
«Dappertutto, persino nel campo della teologia, si può ai giorni nostri avere la deprimente impressione che la libertà non abbia la sufficiente consistenza e che ogni opera grande di pensiero e di azione si debba conquistare con la forza».
Rahner riconosce che il primato della libertà teologica dovette trionfare sulle scelte già determinate e sugli stessi schemi e risultati delle commissioni preparatorie. Si volle un concilio ecumenico che Rahner definisce «della liturgia e delle missioni».I temi che stavano più a cuore al Concilio, dopo un’attenta cernita, sono elencati dal Nostro in questo modo:
«[…] il principio sinodale della Chiesa, l’importanza dell’elemento carismatico in essa, la comunità locale come Chiesa, la possibilità di salvezza dei non cristiani, la “gerarchia” di importanza anche tra le verità definite, la Scrittura al cui servizio stanno la Chiesa e il suo magistero, il sacerdozio universale, il pluralismo delle varie teologie con pari diritto all’interno dell’unica Chiesa, la personale libertà di fede, l’importanza e l’esistenza di una teologia storico-critica, la infondatezza di una teoria secondo la quale esisterebbero nella Chiesa una morale ed una santità di pregio diverso collocate su due piani differenti, il rilievo dato al servizio di Dio nella parola, ecc.».
Ciò che ha fatto il Concilio rimane per Rahner solo «l’inizio dell’inizio». Questo inizio dell’inizio, che è letto da Rahner anche come «nuovo cominciamento» della Chiesa, è inteso da Rahner in questo modo:
«che Cristo e la Chiesa incontrino veramente il tempo di oggi e di domani. Dunque inizio dell’inizio per una Chiesa della grazia di Dio liberamente concessa, per una Chiesa del nostro Signore e Salvatore, del Verbo di Dio, della fratellanza, della speranza, della carità umile […]».
Resta tutto da fare in una Chiesa che col Concilio ha voluto dare un nuovo inizio. Resta da trasformare in forma concreta le direttive sulla liturgia, da istituire i diaconi permanenti, da riformare il Codice di Diritto Canonico, iniziare il dialogo ecumenico con coraggio e speranza, il dialogo con l’ateismo e con il bisogno impellente di fede nel mondo di oggi, ecc. C’è bisogno, però, più d’ogni altra cosa di «una teologia degna del Vaticano II e degli impegni da esso indicati», affinché diventi più dinamica e più acuta per penetrare le profondità di Dio e del tempo. Rahner così si fa promotore anche delle nuove esigenze che attenderanno al teologia post-conciliare:
«[…] parlare di Dio e del suo essere al centro dell’esistenza umana con parole realmente comprensibili agli uomini di oggi e di domani; annunciare Cristo nella visione evolutiva che si ha oggi del mondo, di modo che la parola dell’uomo-Dio, dell’incarnazione del Logos eterno in Gesù di Nazareth, non risuoni come un mito al quale non è più possibile prestare seriamente fede; determinare il rapporto tra i progetti e le ideologie dell’uomo circa il suo futuro e l’escatologia cristiana; impedire, nell’eschaton della redenzione già avvenuta, che l’uomo ricada nella condizione interiore di colui che era vissuto nell’AT, nel continuo timore cioè di restare, dopo la morte, lontano dal Dio della vita; capire come l’amore a Dio e al prossimo formino sempre, ma presto anche in maniera affatto nuova, una assoluta unità […]».
Pertanto anche i compiti che attendono la Chiesa sono diversi. Il prossimo futuro, infatti,
«non domanderà alla Chiesa la precisione particolareggiata dei suoi ordinamenti costituzionali, la strutturazione più attraente della liturgia, nemmeno, in primo luogo, dottrine di più precisa distinzione nella teologia della controversia di fronte alla dottrina dei non-cattolici, né un governo più o meno perfetto della curia romana. Il prossimo futuro domanderà invece se la Chiesa è in grado di testimoniare la vicinanza, che guida e appaga, di quel mistero ineffabile al quale diamo il nome di Dio […]».
Sempre alla luce di questa libertà che è come il cuore della teologia di Rahner, bisogna leggere la sua riformulazione della teologia pastorale, intesa come teologia della prassi, teologia anche politica e perciò «principio organizzativo intrinseco ed estrinseco di tutta la teologia». La pastorale in quanto scienza della ragion pratica, ovvero della libertà, ha una priorità rispetto al dogma. Scrive Rahner:
«Se si riconosce alla ragione pratica (ragione non emozionalità o arbitrio, al quale viene dato il nome di libertà!) una priorità, per il fatto che essa è la sussistenza riflessa di quell’azione che significa salvezza e che si concepisce solo e totalmente in se stessa, non in base a qualcos’altro, allora si può conferire alla T.P., intesa come la rappresentante dell’autoriflessione di questa ragion pratica nella chiesa, una priorità nella teologia globale. Questo non dovrebbe in sé meravigliare. Si dovrà pur riconoscere all’amore libero (e alla speranza) una certa proprietà nei confronti della fede dogmatica».

3. René Laurentin: un Concilio tra limiti, ambiguità e speranze
Un altro testimone scelto per verificare l’impatto del Vaticano II negli immediati anni post-conciliari, è il mariologo francese R. Laurentin, prima membro della Commissione preparatoria del Concilio e poi perito dei lavori conciliari. Un anno dopo la chiusura del Concilio, Laurentin traccia un bilancio dell’eredità pastorale e dottrinale lasciata ai posteri dal Concilio. Questi, nota un paradosso:
«Il Vaticano II, Concilio pastorale, è diventato paradossalmente il Concilio di un rinnovamento dottrinale. I teologi vi hanno trovato un’udienza senza precedenti. “Concilio degli esperti si è detto fin dalla prima sessione, con una nota critica giustificata per ciò che c’era di eccessivo: ma il fatto aveva una sua giustificazione».
La giustificazione ravvisata da Laurentin, in una necessaria revisione della teologia e in un suo aggiornamento, si amplia nel suo bilancio, fino a mettere in evidenza, i limiti del Concilio, i silenzi e le indecisioni, le incompletezze e le ambiguità e finalmente i compiti che spettano alla Chiesa post-conciliare. Tra i limiti, Laurentin ravvisa soprattutto le mancate decisioni in materie scottanti come:

1) i matrimoni misti: ....
2) La regolamentazione delle nascite, ...
3) Il problema del celibato dei sacerdoti, .....
[...]

Di qui Laurentin arriva al dato più scottante, con parresia e parole chiare, delle «incompletezze e ambiguità» di alcuni documenti conciliari. Quest’ambiguità è al dire di Laurentin, «quella della vita in via di sviluppo» che però «non toccano il Concilio ma costituiscono un rischio per molti cristiani»
Tra queste bisogna annoverare:
1) l’ambiguità dell’ecumenismo segnalata anche da O. Cullmann: «Quando ritorneremo nelle nostre file, dovremo combattere, soprattutto tra i laici la falsa sentimentalità ecumenica». Per Laurentin questa ambiguità non è del Vaticano II ma è «uno dei rischi della sua rapida espansione post-conciliare. Bisogna anche mettere sull’avviso contro un trionfalismo ecumenico […]
2) Un’altra ambiguità è l’aggiornamento, anche denunciato da Cullmann. Alcuni, infatti, lo leggono come adattamento al mondo moderno, mentre il Concilio vuole rischiarare l’attività umana con la luce del Vangelo. I rischi, afferma il Nostro, «sono legati all’ambiguità del termine “mondo”, che ha formato oggetto di esame da parte del Concilio».
3) Oltre a queste due, c’è n’è un’altra«che ha toccato il Concilio stesso: quella legata al termine “pastorale”». Riportiamo una citazione più lunga, per lasciare a Laurentin descrivere questo punto, che anche a nostro giudizio, riveste un nodo storico e teologico molto serio:
«Questo aggettivo (pastorale) lanciato da Giovanni XXIII ebbe fortuna. Esso risponde indubbiamente ad un’intuizione profonda: il bisogno di restaurare il legame tra vita e verità, tra dottrina e salvezza. Il suo uso però restò vago e prammatico nel corso della prima sessione. Ma con la seconda sessione alcuni caddero nell’errore di considerare il termine “pastorale” come contrario a “dottrinale”; così la “collegialità” gerarchica e l’amore matrimoniale appartenevano al campo “pastorale”, non a quello “dottrinale”. Si voleva trovare in tal modo una via di soluzione alle opposte tendenze: il campo pastorale sfuggiva all’esigenza di rigore proprio della dottrina: sarebbero bastati termini e parole approssimative. Fin dall’inizio della sessione il cardinale Silva si meravigliò che tale principio avesse trovato posto perfino nella spiegazione ufficiale degli emendamenti dello Schema 13. La rottura tra teologia e vita fu una delle deficienze più gravi di questi ultimi secoli. Sarebbe illusione voler rimediare a questo fatto, creando un tipo di vita zeppo di dottrina: illusione più dannosa della prima».
A parere di Laurentin, il Vaticano II è posto tra Scilla e Cariddi: tra il timore di affrontare i problemi e gli abusi della libertà; la libertà di ricerca proclamata dal Concilio ha sempre con sé i suoi rischi. Si è parlato molto delle vessazioni subite da teologi progressisti, meno invece si è parlato del proliferare di cripto-eresie di destra e di sinistra, come i funghi che si scoprono a volte nelle parti più oscure. Infatti, «se le restrizioni e le chiusure suscitano segrete rivolte, anche la libertà mal compresa può sprigionare forze negative: la superficialità, l’eresia, lo scandalo». Pertanto, dice Laurentin, «il Vaticano II, che è un concilio di ritorno alle fonti, deve conservare il contatto con tutta la Tradizione». Ci sono degli aggiornamenti, certo, ma sono stati letti e fatti alla luce dell’apertura a Dio e del desiderio di arrivare al mondo, prendendo atto dei mutamenti così accelerati che lo segnavano. La Chiesa ha riconosciuto l’autonomia dei valori terrestri e l’autenticità del progresso umano. Così, «il Vaticano II, senza abbandonare l’esigenza di assoluto che ispirava il Sillabo, ne ha superato lo spirito di sfiducia e la rigidità».

Certo se dal Concilio la Chiesa è uscita perdendo un certo tipo di sicurezza, ha sviluppato il senso della ricerca, liberandosi anche dal verbalismo. Ha ritrovato il senso dell’essenziale, ovvero il disegno del Padre. Ha infine ritrovato posto il “grande sconosciuto”, lo Spirito Santo, che a dire di Laurentin, mentre era stato riconosciuto nei primi secoli per la sua preminenza nella Chiesa, aveva poi perso la sua importanza fino ad essere dimenticato. Il Vaticano II, «apparirà – a giudizio del mariologo francese –, davanti alla storia, come prima tappa della riscoperta dello Spirito Santo».

L’avvenire della Chiesa, dunque, dovrà essere segnato dalla messa in atto di queste iniziative pastorali-dogmatiche, in modo da avere realmente una Chiesa post-conciliare, di cui Laurentin disegna il modello, nel vescovo post-conciliare, il laico, il sacerdote, e infine la teologia post-conciliare, ancora ai primi balbetti ma promettente data la mole di rinnovamento proposta dal Concilio. Così il Concilio deve essere come una “creazione continuata”, cercando di stabilire con UR 12 quell’ordine o gerarchia delle verità in ragione al loro rapporto col fondamento della fede e mettendo meglio in evidenza il suggerimento proposto inizialmente da Giovanni XXIII, di distinguere tra “sostanza” e “formulazione” della dottrina della fede, ma non trattato né dal Pontefice né dal Concilio. In chiusura, per il mariologo francese, tutto il Concilio è, per così dire, nel post-concilio.

4. Hans Küng: il Concilio via alla riunificazione

Küng rappresenta per i lavori conciliari e per la sua emblematica posizione di rottura, un autore molto interessante, la cui disamina mette in evidenza la portata di un’ermeneutica che, quando separata dal contesto vivente della Chiesa, ovvero isolata in un lavoro solitario del teologo, porta ad una necessaria rottura con il Soggetto-Chiesa. Küng ha ormai celebrato questa rottura con la Chiesa, in ragione, a suo modo di vedere, soprattutto dei tradimenti del Concilio da parte dello stesso Magistero.

Küng ebbe un ruolo molto importante al Concilio come perito e poi come teologo per l’applicazione del post-concilio. Uno dei temi da lui più approfonditi e visto come speranza per una vera unità della Chiesa con i protestanti è stato quello ecumenico. È interessante riportare la testimonianza del Card. W. Kasper, che fu suo assistente alla cattedra di teologia fondamentale:
«All’inizio c’erano molte cose che affascinavano di Hans Küng: il suo modo giovanile e fresco di porsi, la sua visione spontanea e non convenzionale della chiesa e anche molte idee riformatrici. Il suo libro Concilio e riunificazione, divenuto rapidamente un bestseller, dava espressione alle attese che molti riponevano nel Concilio; esso divenne anche una sorta di catalizzatore, sul quale molti spiriti si dividevano. Anche il mio maestro Geiselmann corrugava la fronte».
Un tema fontale ed imprescindibile per capire anche la posizione ecumenica molto speranzosa quanto frettolosa di Küng, è quello della Tradizione della Chiesa, nel contesto della discussione che fu affrontata nella Commissione dottrinale per la formazione dello Schema che porterà alla promulgazione poi della Dei Verbum, schema che aveva evitato di riproporre il problema della duplicità delle fonti della Rivelazione. Un autorevole studioso del problema, che le tesi di Küng presuppongono, è J. R. Geiselmann. Questi sosteneva, riprendendo il tema tridentino e l’accusa di Lutero alla Tradizione (accusa piuttosto al ministero nella Chiesa), che il Concilio Vaticano II abbandonò la tesi del partim (parte della rivelazione contenuta nelle Scritture e parte nella Tradizione) per accontentarsi della sua particella et. Da qui Geiselmann deriva che l’idea della duplicità delle fonti della Rivelazione fu abbandonata dal Vaticano II o per lo meno non espressamente definita. Così deriva la sua idea, secondo cui, in fondo anche un cattolico può approdare senza problemi alla concezione della sufficienza materiale della Scrittura (tutte le verità rivelate sono contenute nella Scrittura) e che sempre come cattolico si può sostenere che la Scrittura ci consegna in maniera sufficiente la Tradizione. In questo modo però scompare il concetto cattolico di Tradizione come canale della Rivelazione e conoscibilità della stessa insieme alla Scrittura. Si può subito immaginare l’esultanza e i consensi che una tale tesi riscontrò tra coloro che si affaticavano per un sereno dialogo col protestantesimo, offrendo possibilità del tutto nuove ad un nuovo incontro tra cattolici e cristiani evangelici in particolare. Tra i Padri conciliari si segnalò particolarmente il Card. Döpfner, che in Concilio disse che la Sacra Scrittura e la Sacra Teologia non erano da venerare con la medesima pietà.

Küng si era messo in questa scia; rinuncerà in modo sempre più marcato al concetto cattolico di Tradizione, considerando gli interventi della Chiesa semplicemente come un riflesso di un determinato momento storico, e così svuoterà dall’interno il contenuto normativo della Tradizione. Questo suo incedere teologico, inaugurerà un nuovo modo di prospettare il movimento ecumenico, quale chiamata all’unità: imperativo del Vaticano II.

Questo modo nuovo ad esempio si vede già nel suo libro – che al dire del Card. Kasper fu un vero bestseller in questo senso, che trascese di molto anche le aspettative di Geiselmann –, sul Concilio e l’unità (della Chiesa?): qui il rinnovamento del Concilio è visto come chiamata all’unità (sottotitolo suggeritogli da K. Barth). Küng si chiede: «Come possiamo incontrarci cattolici e protestanti»? E risponde indicando la via inaugurata da Giovanni XXIII, ovvero quella del «rinnovamento interno della Chiesa in vista del ritorno all’unità». Questo per Küng significa: «Non un semplice, inefficace richiamo a rientrare nell’unità della nostra Chiesa»; «Non semplicemente conversioni individuali»; «Non soltanto una riforma morale», perché la divisione della Chiesa non appartiene all’ordine dei vizi capitali e quindi ai vizi eterni dell’umanità, ma siccome è avvenuta storicamente «[…] può quindi – ben diversamente dai vizi capitali – aver fine con la grazia di Dio». Ecco dunque che per Küng il rinnovamento deve avvenire nella Chiesa cattolica, che partendo dalla sua essenza originaria (come diceva Barth), attui poi il vero spirito del Vangelo. E così sintetizza in modo emblematico il suo pensiero riguardante questo necessario rinnovamento:
«La protesta dei protestanti contro la Chiesa cattolica deve, nella misura in cui essa possa essere giustificata, poter perdere il suo oggetto, per opera della Chiesa cattolica stessa. La Chiesa cattolica, è vero, in quanto Chiesa di uomini e di uomini peccatori, rimane sino alla fine dei tempi Ecclesia reformanda».
Così Küng in definitiva vede il suo programma di rinnovamento: la Riforma protestante è quella giusta ed umana aspirazione alla riforma, che dà alla Chiesa cattolica il modello di un vero ritorno al Vangelo, e noi cattolici ritornando al Vangelo, in questa logica storico/storicista della riforma, ritorniamo all’unità con i protestanti. Ma si potrebbe chiedere: un’unità dove? In quale Chiesa? Di quale unità, in fondo, Küng sta parlando? Col passare degli anni, però, dagli osanna entusiasti a Giovanni XXIII, come traspare nella prefazione di questo libro, che lo animava a galoppare l’onda del rinnovamento conciliare e del nuovo ecumenismo,, passerà ad una contestazione qualificata del Magistero, e accuserà la Chiesa di aver tradito il Concilio.

5. Card. Leo Scheffczyk (1920-2005): aspetti della Chiesa nella crisi
Leo Scheffczyk, dogmatico tedesco, amico e collega di J. Ratzinger, elevato alla porpora cardinalizia per i meriti teologici, è un testimone della teologia di non poco conto, in ragione – come gli riconosce J. Ratzinger nella presentazione alla sua opera italiana che esamineremo –, della «sua conoscenza straordinaria delle fonti, del suo sguardo acuto per i problemi e i compiti del presente, come anche della sua profonda fedeltà, radicata nella fede, al Magistero».
Per Scheffczyk il problema della crisi post-conciliare è riconducibile ad una crisi ecclesiologica, ovvero ad una ricerca sulla “Chiesa” ritenuta per diverse ragioni già esaurita, in un’epoca di forte irrazionalismo del post-moderno che contiene in sé gli elementi del post-cristiano. Così,
«ignorando questa situazione – scrive – e considerando la fraternizzazione avventata e non critica del cristianesimo con lo spirito del tempo, è facile prevedere che anche all’interno della chiesa si introducano le tendenze dell’irrazionalismo postmoderno, quali una religiosità vaga e una presunzione gnostica, coinvolgendola così nell’intreccio della “lieve cospirazione”».
Queste riflessioni sono formulate dall’autore,
«nel bel mezzo di un fermento rivoluzionario, alla comprensione di ciò che nella chiesa è permanente […]. Il possibile rischio è che in un prossimo futuro possano ritornare attuali le tragiche parole dell’epoca dei disordini ariani: “Geme l’orbe terrestre e si meraviglia di essere divenuto ariano”. Tutti i cristiani veramente preoccupati per la Chiesa dovrebbero trovare nel Concilio Vaticano II un punto d’incontro».
Scheffczyk, nel suo saggio sugli Aspetti della Chiesa nella crisi. Per la scelta di un Concilio autentico, come suonerebbe una traduzione più letterale del suo volume sugli aspetti della crisi post-conciliare, si concentra sul tema “Chiesa”, tratteggiando una teologia rinnovata alla luce del Vaticano II ma senza tradire o adulterare il dato dogmatico acquisito dalla Tradizione e dalla precedente riflessione teologica. La crisi è per Scheffczyk una crisi della Chiesa in quanto mistero. Può sembrare strano, dato l’accento ecclesiologico posto nello sviluppo post-conciliare, eppure il vero nodo teologico è riconducibile, per il nostro cardinale, allo smarrimento di un concetto metafisico di partecipazione del mistero-Chiesa. Le passioni antiecclesiali della fine dell’‘800 e del ‘900, provocate in gran parte dal protestantesimo liberale, quali le rivendicazioni di democratizzazione, di abbandono dell’autorità, di libertà dai dogmi, di liberalità e di parità – quasi tutte accolte dalla Chiesa evangelica – continuano a sfidare il concetto cattolico di Chiesa. Per il protestantesimo un dato è certo, dice il Nostro: «Si può reagire alla crisi non con cambiamenti esteriori, bensì solo attraverso un mutamento interiore del nucleo di fede». E così i dissidi interni al protestantesimo e il calo esteriore sono molto più estesi e perniciosi di quelli presenti nella Chiesa cattolica. In ambito cattolico, invece, dice Scheffczyk ,
«la vera cesura nello sviluppo della coscienza della chiesa ha avuto luogo dopo il Concilio Vaticano II, alle cui legittime aspirazioni di riforma si sovrapposero tendenze di una ristrutturazione pensata in altri termini. Esse si ripercuotono oggi sia nell’ambito evangelico che in quello cattolico e si rendono visibili in primo luogo negli aspetti esteriori».
Un dato però è certo: la dottrina ecclesiologica del Vaticano II è da leggersi come progresso e continuità. La Lumen gentium designa la Chiesa come mysterium, ricollegandosi così chiaramente alla Tradizione. La Chiesa è mistero del Dio Unitrino, diventando in Lui segno della vita divina tra gli uomini. Di qui si passa ad un’altra definizione della Chiesa: «La Chiesa è sacramento, definizione questa ancorata alla Tradizione, ma trasportata qui in una nuova dimensione». Lumen gentium 1 dice che la Chiesa è «in Cristo come il sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». Questa formula, fa notare Scheffczyk, con la quale la Chiesa è designata come «l’indissolubile sacramento dell’unità» è presente già in Cipriano di Cartagine († 258), secondo il quale la formula è da riferirsi
«all’unità interna della chiesa e significa soprattutto l’unità con il legittimo vescovo. Per questo coloro che non sono inclusi in questa unità sono “al di fuori della Chiesa”. Rivolgendosi agli eretici, Cipriano sottolinea in questo contesto che l’unità con la chiesa è necessaria per la salvezza delle anime».
Così Scheffczyk, fa notare che, nonostante il Concilio non citi la formula classica di Cipriano «al di fuori della Chiesa non c’è salvezza», tuttavia permane nel Vaticano II la stessa immagine di Chiesa, in cui si evidenziano i tratti sacramentali dell’unicità, della necessità di salvezza e della pienezza di salvezza in Cristo e nello Spirito Santo. Questa è «l’unica Chiesa di Cristo che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica» (LG 8).

Questo concetto di Chiesa-sacramento permette al Concilio di passare adagio dal sacramento Cristo al sacramento Chiesa, la cui radice cristologica più profonda è
«l’immagine del corpo di Cristo. […] Pio XII riconobbe in esso la “definizione più significativa e più divina della sostanza della Chiesa”. Anche il Concilio Vaticano II tiene in grande stima questa immagine, quando considera la chiesa “per una non debole analogia… paragonata al mistero del Verbo incarnato” (LG 8)».
In questo modo il Concilio non porta nessuna innovazione formale nel pensiero ecclesiale. Ha dato solo ad un’idea biblica e fondata nella Tradizione, un ulteriore riconoscimento. Infatti già il Vaticano I aveva definito la Chiesa come «il segno innalzato tra i popoli», facendo riferimento ad Is 11,12. Quindi «riconoscendo alla chiesa questo suo carattere di segno si garantisce la diversità tra Cristo e la chiesa e si riconosce quest’ultima come realtà che esiste a partire dalla sua relazione con Cristo». La Chiesa è «di fronte» a Cristo e non si identifica con Lui. Il rapporto giusto Cristo-Chiesa è fondamentale per capire anche la portata salvifica di Cristo nella Chiesa e sempre attraverso la Chiesa. Cristo ha fondato la sua Chiesa e la conserva nell’essere. È presente nella sua Chiesa ma la sua presenza non «si esaurisce nella Chiesa, ma resta al di sopra: Cristo abita nella chiesa e ne è superiore allo stesso tempo; la Chiesa è compresa da Cristo, mentre essa non lo può contenere in modo completo». In questo senso la Chiesa è sempre strumento e organo di Cristo.

Accanto al concetto di «sacramento», il Concilio utilizza anche il concetto di «popolo» per designare la Chiesa. Questa immagine profondamente biblica, esprime il dato secondo cui la Chiesa è una comunione vivente di fratelli e sorelle esprimendo la sua natura comunionale, dinamica e storica. Certamente la missione di questo popolo di Dio non è di ordine politico o sociale, ma dice Gaudium et spes 42 «il fine […] che le ha prefisso (Cristo) è di ordine religioso». Non sono mancate però le interpretazioni politiche e sociali di questo lemma Chiesa-popolo. Principiando dall’odierno concetto di popolo come emerso dal Romanticismo, lo si è collegato allo spirito del popolo, alla sovranità popolare, al popolo come forza primitiva che determina il diritto e gli usi. Così qualcuno ha gridato: «noi siamo il popolo», «wir sind die Kirche». Ma, nota Scheffczyk,
«il Concilio non offre alcun fondamento a questa interpretazione, poiché esso comprende nell’immagine del popolo la comunità sacramentale del “corpo di Cristo”, che è composto non solo di “popolo”, bensì di un capo e di un organismo sacramentale composto di membra. Nel frattempo, nell’era postconciliare, in cui si vorrebbe proseguire il concilio solo secondo il suo “spirito”, senza attenersi al senso e al contenuto espressi da esso, il concetto di “Popolo di Dio” è stato ripetutamente mal compreso e interpretato secondo un modello democratico».
Un altro concetto centrale dell’ecclesiologia conciliare è il concetto di communio, purtroppo anch’esso divenuto equivoco e contraddittorio nel post-concilio. Questo non svaluta però il suo retto significato attribuitogli dal Vaticano II, secondo il quale, «sono incorporati veramente nella società della Chiesa coloro che… sono congiunti a Cristo mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione» (LG 14). Qui la comunione è nel suo insieme trinitaria e gerarchica (ha cioè un’origine sacra) e perciò è una comunione gerarchica o una gerarchia per la comunione della Chiesa.

Infine, Leo Scheffczyk, appura la continuità della Tradizione in altri due dati dell’ecclesiologia conciliare: il fatto che la Chiesa Cattolica sia l’unica Chiesa di Cristo e il fatto che fuori della Chiesa non c’è salvezza. Si tratta di due problemi diversi, uno ecumenico e l’altro riguardante il dialogo interreligioso.

Il Vaticano II non parla mai di una restaurazione dell’unità della Chiesa, ma solo dei cristiani. Se si dovesse restaurare l’unità della Chiesa in sé, significherebbe che Cristo ha ritirato, per così dire, da essa la sua incarnazione e smentirebbe la sua promessa di restare in essa fino alla fine dei tempi. Il problema più delicato che è stato posto è come mai il Concilio per designare l’unica vera Chiesa si sia richiamato al concetto di sussistenza: la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica (cf. LG 8) e non che essa è la Chiesa cattolica. Qui si vede l’apertura teologica al concetto di ecumenismo e si vuole radicarlo in una teologia degli elementa Ecclesiae. Ci sono certamente elementi ecclesiali presenti anche in altre comunità cristiane o Chiesa particolari separate da Roma, ma dice Scheffczyk,
«“ecclesialità” non è ancora “chiesa”, come (per fare un esempio) le caratteristiche e le connotazioni particolari di un popolo non formano ancora uno Stato, anche se per uno Stato esse rivestono un grande significato».
È da pensare, perciò, in modo corretto l’unità e la molteplicità, il mistero della Chiesa universale (precedente in modo ontologico e cronologico) e quello delle Chiese particolari. L’unità della Chiesa precede la molteplicità: è la sua misura e il suo scopo. La molteplicità, infatti, «non coinvolge l’essenza, bensì le modalità esteriori; non la sostanza, bensì la forma, non la verità bensì la sua espressione (come la teologia e la devozione) […]».

L’altro dato importante, ma anch’esso fortemente e volutamente frainteso è il dialogo interreligioso e la salvezza dei non cristiani che non può realizzarsi se non nella Chiesa e mediante la Chiesa. Anzitutto Scheffczyk appura che la dottrina del Concilio non rinnega l’assioma classico di origine patristica secondo cui «al di fuori della Chiesa non vi è salvezza», che del resto è comprensibile solo a partire dalle condizioni storiche del periodo in cui ha avuto origine. Sin da Origine e Cipriano, fa notare Scheffczyk, era diretto contro le divisioni e le lacerazioni della Chiesa e si voleva contestare alle Chiese particolari il diritto di presentarsi come organizzazioni salvifiche accanto all’unica vera Chiesa. Però, dice il Nostro,
«persino nei Padri della chiesa, giudici rigorosi, che sostennero questo principio non mancano accenni ai “santi nascosti” del paganesimo e alle possibilità di salvezza dei non cristiani, poiché la grazia viene offerta ad ogni uomo e ogni uomo di buona volontà può riconoscerla».
Anche un altro dato è da tener ben presente: il fatto che la Chiesa abbia condannato la frase giansenistica secondo cui «fuori della Chiesa non c’è grazia». Quindi dice Scheffczyk,
«la chiesa […] anche ripetendo fino a ieri il principio tradizionale, non contesta in alcun modo la possibilità di salvezza per coloro che ne sono al di fuori, così come essa, d’altro canto (è importante osservare questo), non garantisce al singolo cristiano la salvezza sulla base della sua appartenenza alla chiesa».
Pertanto non è il Concilio ad avallare le nuove interpretazioni secondo cui tutte le religioni, essendo fatti obiettivi, sarebbero vie di salvezza e basterebbe che ognuno si sforzasse di essere ciò che è: un bravo musulmano, un bravo induista, ecc. Ad esempio Küng, vuole che le religioni si impegnino «alla ricerca comune della verità». è vero che il Concilio,
«non chiarisce le difficili questioni riguardanti il rapporto del cristianesimo con le altre religioni. Ma vi è una decisione fondamentale le cui conseguenze è bene osservare. […] con l’avvenimento di Cristo è oggettivamente successo qualcosa (comprensibile solo nella fede del cristiano), che equivale a una critica fondamentale, ad un aumento e (sia in senso negativo che positivo) a un’“abolizione” delle religioni nella pienezza di Cristo» E poiché i raggi di verità presenti in qualche modo nelle religioni, «sono ora raccolti nella chiesa donata da Cristo, l’azione del donare la grazia al di fuori della chiesa non avviene senza la chiesa e neppure al di fuori di essa. La chiesa rimane il sacramento universale di salvezza dal quale proviene la grazia e verso cui la grazia si dirige».
6. La Scuola bolognese: il Concilio come “evento storico”

Un grande ruolo nell’ermeneutica e nella recezione del Concilio ha svolto la Scuola di Bologna, fondata da G. Dossetti con la creazione di un Istituto di Scienze Religiose, guidato da G. Alberigo, direttore della poderosa Storia del Concilio Vaticano II, raccolta in 5 volumi. Opera di respiro internazionale, i cui criteri ermeneutici del Concilio sono riconducibili anzitutto alla storicità stessa del Concilio, categoria che permette di vedere il Vaticano II come “evento” con una grande partecipazione e amplificazione mass-mediatica. Dalla storicità si coglie bene poi l’impronta pastorale-ecumenica fontale dell’evento conciliare e questo permette in definitiva di esaminare in maniera trasversale, con una notevole opera di cesello, anche gli aspetti più reconditi del Concilio. Questi aspetti non si esauriscono nella celebrazione dell’evento in quanto tale, ma in ragione di uno spirito, il Concilio si può leggere come una legge della “conciliarità” – tema dominante nella lettura bolognese dell’ermeneutica conciliare – sempre presente, in modo che il Vaticano II sia anche in futuro quello che voleva essere nel passato. Questo ad esempio lo vediamo nella disamina storica che fa Alberigo a quarant’anni dalla celebrazione del Vaticano II e al termine della pubblicazione dei 5 volumi della storia del Vaticano II. Scrive Alberigo: «La storicizzazione del Vaticano II apre la possibilità di una “svolta ermeneutica”». Alberigo, nota anche che «non è improprio ritenere i movimenti della prima metà del XX secolo (liturgico, ecumenico, biblico, per la promozione del laicato) un autentico “preconcilio”. Come all’opposto, ha avuto effetti “ritardanti” la diffidenza post-modernista nei confronti della ricerca teologica».

Comunque la lettura del Vaticano II come evento è necessaria per superare il momento problematico della celebrazione dell’evento e della sua recezione, della diatriba tra dottrina e pastorale. Scrive sempre Alberigo nell’introduzione al primo volume della Storia del Vaticano II:
«Attardarsi in una visione del concilio come la somma di centinaia di pagine di conclusioni – frequentemente prolisse, talora caduche – ha sinora frenato la percezione del suo significato più fecondo di impulso alla comunità dei credenti a accettare il confronto inquietante con la Parola di Dio e con il mistero della storia degli uomini… È sempre più attuale riconoscere la priorità dell’evento conciliare anche rispetto alle sue decisioni, che non possono essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso. La carica di rinnovamento, l’ansia di ricerca, la disponibilità al confronto con l’Evangelo, l’attenzione fraterna verso tutti gli uomini, che hanno caratterizzato il Vaticano II, non sono aspetti folkloristici o comunque marginali e transeunti. Al contrario, questo è lo spirito dell’evento conciliare, al quale la sana e corretta ermeneutica delle sue decisioni non può che fare riferimento».
Il post-concilio deve essere il momento della storicizzazione del Concilio, la quale si risolve operando appunto «una storicizzazione del Vaticano II non per allontanarlo, relegandolo nel passato, ma per agevolare il superamento della fase controversistica della sua recezione da parte delle Chiese». Ciò sarà possibile solo nella misura in cui si farà affiorare «lo spirito e la dialettica che hanno caratterizzato l’assemblea». Questa disamina, al dire di Alberigo, è interessante perché fa emergere «un gap, tra l’evento conciliare come fatto collettivo e le decisioni finali dall’assemblea». Questo ancora una volta sottolinea che «l’evento conciliare sia irriducibile al corpus, pure molto ampio delle decisioni: la collegialità conciliare ha avuto una densità molto maggiore di quella enunciata in Lumen gentium. Le costituzioni e i decreti non rispecchiano tutte le virtualità che si sono espresse durante la vita del Concilio». Così si apre la possibilità di una ricerca trasversale che porti
«alla luce la presenza ricorrente e spesso determinante dei fattori cruciali dello spirito conciliare: il rinnovamento liturgico ed ecclesiologico, al di là dei limiti delle due costituzioni corrispondenti; l’ansia ecumenica, più ricca ed articolata di quanto non dica il decreto Unitatis redintegratio; la riscoperta della Parola di Dio, che non emerge solo da Dei Verbum; l’irrinunciabilità della libertà religiosa, che i padri conciliari hanno progressivamente acquisito, anzitutto come dimensione del loro statuto cristiano».
Per la Scuola bolognese, il criterio della pastoralità del Concilio è indispensabile per distinguere un livello delle forme contingenti e storiche e un livello dei principi di fede, senza tuttavia che i due livelli appaiano in discontinuità tra loro, per il fatto che il lavoro del teologo e del magistero prende l’avvio da quello dello storico e l’apparente storicità contingente delle forme pastorali, sarebbe suffragata da un lato dalla gerarchia delle verità di UR 11 e dall’altro da un nucleo dottrinale che nel suo interno rimane comunque lo stesso pur nel divenire frammentario. La fede qui è subordinata alla storia; altrettanto le dichiarazioni del magistero, ormai non più proponibili come condanne ma, le stesse condanne di prima, superabili in ragione della loro storicità e della nuova pastoralità.

Pastoralità, poi, è in un certo modo, sinonimo di ecumenicità. Infatti, a dire di C. Theobald,
«i rappresentanti del segretariato per l’unità, il card. Bea, mons. Smedt e mons. Volk, che la momento cristallizzano l’opinione di tutti coloro che si oppongono agli schemi preparatori, colgono il legame interno tra la forma pastorale e la forma ecumenica dei documenti conciliari da comporre».
La visione pastorale della Scuola bolognese che riesce a saldare in unità l’evento con la dottrina, ovvero il dato di fede con la sua comunicabilità è riconducibile, crediamo, a questa espressione di Theobald:
«[…] si tratta veramente, nel rapporto tra tradizione e Scrittura, di un problema di verità o di punti contenuti nel “deposito”? La dottrina non è piuttosto un modo di porre, in contesti diversi, delle condizioni perché all’interno della tradizione stessa l’evento cherigmatico o pastorale possa avvenire realmente e in tutte le sue dimensioni? È sicuramente a questo che aveva mirato Giovanni XXIII parlando della “forma pastorale della dottrina o del magistero”».
Sul versante della storicità del Vaticano II si colloca anche B. Forte. Questi definisce il Vaticano II «il Concilio della storia», nel senso che,
«il Vaticano II ha avviato una “storia del Concilio”, un itinerario di ricezione attraverso il quale la promessa risuonata nell’evento conciliare potesse prender corpo nella vita degli uomini».
In questo modo il Vaticano II assume la «storia nell’autocoscienza della fede», mettendola in rapporto alla verità. Il documento più importante del Vaticano II è per Forte la Dei Verbum,
«il più incisivo contributo che la riflessione magisteriale abbia dato al problema della mediazione storica della rivelazione. Il superamento della dottrina delle due fonti, Scrittura e Tradizione, in quella dell’unica traditio Verbi ex fide in fidem, che ha il suo momento normativo nella parola registrata nel testo sacro, ma che vive in permanente novità di racconto e di interpretazione sotto l’azione dello Spirito Santo nel tempo…».
Sulla linea della pastoralità intesa come storicità, si colloca pure il vescovo testimone del Concilio, uno di più giovani partecipanti al Vaticano II, L. Bettazzi. Proprio in ragione della pastoralità del Concilio, si può superare, in qualche modo, quella discontinuità provocata, invece, dai precedenti concili in quanto dogmatici. Il Vaticano II sarebbe sempre attuale/storico perché pastorale.

Rilievi conclusivi

A questo punto del nostro itinerario teologico, che ci ha portato a verificare alcune posizioni sul Concilio Vaticano II, da noi scelte perché ritenute alquanto esemplari, possiamo ora ricavare dallo studio d’insieme del problema alcuni elementi-chiave. Questi elementi, a nostro giudizio, sottolineano, da un lato la complessità del dato teologico che si presenta nel suo insieme quale “Concilio Vaticano II”, dall’altro, riescono a far emergere i nodi delle problematiche che via via si sono presentate, riassumibili in tre posizioni: 1) Il Vaticano II è intrinsecamente compromesso? 2) Il Vaticano II nasconde una carenza metafisica fondamentale? 3) Gli asserti teologico-fondamentali quali chiavi per interpretare il Concilio.

1. Il Vaticano II è un “testo compromesso”?

Il tema si fa alquanto delicato e scottante, anche se abbiamo visto che anche Laurentin non ha timore di denunciare le imprecisioni dei documenti del Concilio. Un caso alquanto singolare e certamente privo di sospetti è quello di O. H. Pesch che – a dire il vero in modo alquanto pungente e sarcastico – accusa il Concilio di essere un testo compromesso: «Non di rado – dice – in casi estremi si ha a che fare con “il compromesso del pluralismo contraddittorio”». Per pluralismo contraddittorio Pesch intende ad esempio il fatto che, gli schemi, molto spesso, erano formulati come un do ut des: se accetti il mio testo io approvo il tuo. Questo si presenta nelle votazioni in sede di Commissione, per quanto riguarda, ad esempio, la collegialità episcopale: prima si fanno delle grosse aperture, poi per una minoranza conservatrice, si fanno dei passi indietro, moltiplicando i riferimenti alla potestas del Romano Pontefice: questo lo si appura, al dire di Pesch, soprattutto nel risultato finale.

A Pesch, su questo dato, risponde P. Hünermann, che critica questa posizione estrema per il fatto che i documenti del Concilio non sono da vedere come documenti di una costituzione umana e civile. La possibilità di parlare di “pluralismo contraddittorio” applicata a Lumen gentium, esisterebbe «solo se si partisse da un testo conciliare che possedesse, a motivo del genere, la forma di giudizio o di legge». Per Hünermann, in linea con l’idea della Scuola di Bologna, bisogna valutare rettamente il genere dei testi del Concilio soprattutto nel loro processo ricettivo, tenendo conto della genesi e dello svolgimento del Concilio. Il Vaticano II, infatti, si inserisce nella tradizione di Trento e del Vaticano I, ma a differenza di questi, non fa delimitazioni in termini di definizioni. Il senso del Vaticano II, di natura pastorale, è da vedersi soprattutto nella volontà dei Pontefici, e in particolare nel lavoro della prima sessione. Questo faciliterà il fatto che si recepisca «il corpus dei testi del Vaticano II come norma durevole. Solo se il testo del Concilio non adempie a delle funzioni una volta e basta, ma lo si consulta continuamente per i problemi del momento e per la loro elaborazione, allora veramente si afferma il suo carattere». Per Hünermann, comunque, «si potrà indicare il genere dei testi del concilio Vaticano II come “costituzione della vita ecclesiale di fede” o, in breve, come “costituente della fede”».

Così, ci chiediamo, si risolverebbe il problema del “pluralismo contraddittorio”? Crediamo di no, per il fatto che i documenti di un concilio in genere non costituiscono la fede, la esprimono, la definiscono in modo solenne. Potrebbero costituirla solo in un ambito dogmaticamente pastorale, visto da un’angolatura storica come vuole la Scuola bolognese. Ma il Concilio non fu questo, né vorrebbe esserlo.

Crediamo, anche, che un certo pluralismo contraddittorio appaia ed era inevitabile per diverse ragioni, innervate però tutte nella mancanza di chiarezza dei confini tra ciò che è pastorale e ciò che è dogmatico. Le due dimensioni dell’unica teologia sono equivalenti? Si distinguono? L’una è subordinata all’altra? Pertanto, non si potrebbe dare una risposta esaustiva alla domanda formulata e neppure si potrebbe verificare a livello teologico la continuità/discontinuità delle dottrine del Concilio con la Tradizione della Chiesa, senza richiamarsi ad altri due livelli, che indicheremo di seguito.

2. Il Vaticano II come problema metafisico: un problema di sostanza e di forma?
Il problema “Vaticano II”, più che un “pluralismo contraddittorio”, è quello di una non chiara precisazione della sua natura e di conseguenza del tenore dei suoi documenti, nella cui ottica, sono da leggere le cosiddette “aperture” o meglio approfondimenti teologico-magisteriali. Se rimane fermo che la natura del Concilio è pastorale (non nel senso storicista inteso da Rahner: attingere i presupposti teologici dalla prassi e dalla scienze profane, ma nel senso teologico inteso dal Magistero) e che il tenore del Magistero è autentico ordinario, infallibile solo nella misura in cui reitera i dati già definiti o definitive tenenda della Tradizione, allora i miglioramenti e gli approfondimenti del Concilio, che potrebbero dar adito anche a dei regressi a causa della rottura teologica, sono da verificare alla luce del sano metodo teologico. La teologia che illumina il Magistero dovrebbe verificare lo status di questi approfondimenti e fornire al Magistero un criterio per un pronunciamento (magari anche ordinario) volto a dissipare tutti gli equivoci accumulatisi. Il Magistero in tal modo, potrebbe dire in modo autorevole che solo la continuità è l’ermeneutica giusta da applicare al Concilio e che le innovazioni sono da leggersi in questa continuità della Tradizione, le cui discontinuità non sono dogmatiche (nel senso che feriscano il dogma o lo cambino; più che altro lo spiegano o tentano di spiegarlo) ma teologiche. Nel Vaticano II come rapporto diadico di “concilio-mistero” non si insinua il modernismo. Sarebbe blasfemo il solo pensarlo. Questo magari era presente in alcuni periti e teologi, ma il Concilio è cattolico, convocato e approvato dal Romano Pontefice, i suoi documenti rimangono, natura sui, un insegnamento magisteriale obbligante.

3. Alcuni principi teologico-fondamentali nel Vaticano II

Per ultimo, è necessario individuare alcuni principi, che potremmo definire teologico-fondamentali, enunciati dal Concilio, dalla cui applicazione e lettura, dipende, in gran parte, la visione d’insieme del Vaticano II, come Concilio (evento/celebrazione solenne) e, di conseguenza, la giusta/errata interpretazione delle dottrine conciliari. A nostro giudizio, questi principi potrebbero essere riassunti in tre: 3.1 pastoralità/aggiornamento; 3.2 la distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione; 3.3 il principio “gerarchia delle verità”. Esaminiamoli brevemente, per sottolinearne la cogenza, auspicando il conforto di altri studi di approfondimento.

3.1 La pastoralità del Concilio intesa come aggiornamento e viceversa
Nell’intenzione di Giovanni XXIII il Concilio doveva provocare un aggiornamento, inteso come apertura al mondo e quindi come modo per dire al mondo, hic et nunc la fede della Chiesa. Si volle un modo pastorale d’approccio per far sì che si scegliessero i mezzi più adeguati ed anche il linguaggio della modernità, quando necessario, per parlare all’uomo di oggi, profondamente diverso da quello del Vaticano I, per le nuove condizioni storiche e anche teologiche. Al Concilio si intrecciano e si ingarbugliano due livelli: la fede doveva progredire, ma il Concilio non voleva assumere un carattere dogmatico, perché sarebbe stato anacronistico. Il progresso doveva essere visto come un aggiornamento ma l’aggiornamento non doveva essere dogmatico (come definizione di nuovi dogmi) bensì pastorale ma riguardante propriamente la dottrina. Era chiaro che si arrivasse all’aggiornamento della dottrina: una pastorale ha come cuore la dottrina, ma il Concilio voleva procedere in modo pastorale, ovvero con un magistero ordinario autentico. Lasciando in una sorta di wavering generale i lemmi implicati, e utilizzando nel complesso un linguaggio piuttosto discorsivo e non metafisico, presto “pastorale” è divenuto per Rahner il metro della teologia in quanto tale, sicché sussumendo da un’antropologia profana e da una rivelazione intesa come storia le categorie teologiche, la teologia stessa, nel suo insieme diventa pastorale, e la pastorale non deriverà più dalla teoria teologica, bensì dalla prassi. Qui il mondo con la sua concupiscenza entra nella dogmatica e la trasforma.

3.2. La distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione (sostanza e forma?)
Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura dell’11 ottobre 1962 aveva detto:
«Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto».
Il Pontefice qui invita la teologia a distinguere tra sostanza della fede e suo rivestimento; tra sostanza e forma esteriore o apparente. Si tratta di un problema di linguaggio? Il pontefice ci dice che bisogna adottare una nuova filosofia del linguaggio per superare il momento fatidico dell’in sé e di ciò che viene espresso, passando per le maglie di un forte soggettivismo di colui che dice e quindi già di una sua interpretazione? Crediamo che Giovanni XXIII non si riferisse ad un problema di linguaggio, ma in modo molto semplice volesse dire a tutti che la sostanza della fede non cambia, ma può esser meglio adattato ai tempi il linguaggio per comunicare la fede. Infatti UR 11 dirà:
«[…] la fede cattolica va spiegata, con maggior profondità ed esattezza, con un modo di esposizione e un linguaggio che possano essere compresi anche dai fratelli separati».
La teologia stava già da tempo coniando un nuovo linguaggio, accantonando per lo più quello metafisico-scolastico, per fare posto a quello più moderno, che diventerà poi, in alcuni teologi, l’adottare una filosofia esistenzialista e fenomenica. Questo principio, dunque, si è prestato a svariate letture, anche contraddittorie: da una teologia rinnovata basata sulle fonti del sapere rivelato, ad una teologia rinnovata, diventata pluralista in ragione del pluralismo filosofico, ebbra nel recepire il dato della modernità e senza troppe remore circa la sua fedeltà alla Rivelazione di Dio. Gran parte della teologia è divenuta un’antropologia. La Chiesa si è mondanizzata, secolarizzata. Sembra strano, ma il grimaldello è stato in gran parte la teologia: quella che in larga misura ha fatto il Concilio.

3.3. La gerarchia delle verità (UR 11) o piuttosto analogia delle verità?
Qui si entra in un discorso molto delicato. Il principio della gerarchia delle verità è enunciato da UR 11 che dice:
«Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana».
Il testo, letto nel contesto teologico ormai acquisito da così lungo tempo, si protende più verso un’analogia delle verità che verso una subordinazione di alcune verità ad altre fino a farle scomparire. Le verità rivelate hanno tutte pari dignità perché ci sono dette per la nostra salvezza e tutte promanano dall’unico Autore, Dio. Gerarchia o ordine, dovrebbe essere qui letto nel suo senso etimologico originario come origine sacra delle verità da Dio e nel loro rapporto analogico col fondamento della fede che è lo stesso Dio rivelantesi come verità, distinguendo tra fides qua e fides quem. A nessuno che legge il Concilio nella Chiesa e in linea con la sua Tradizione, verrebbe in mente di strumentalizzare le verità di fede, riconoscendone alcune – normalmente quelle che non piacciono al teologo – inferiori e di secondaria importanza rispetto ad altre. Questo però è stato fatto. Si pensi ad esempio ad H. Küng che vede in questo principio il punto di partenza per un dialogo ecumenico volto non più al ritorno dei fratelli separati nell’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, ma ad una conversione di tutti principiando dal dato storico inequivocabile di una giusta e motivata istanza portata dalla Riforma: quella di una spiritualizzazione e conversione della Chiesa. Un mero andare verso gli altri. Anche la Scuola bolognese vede in questo principio il punto di partenza per una mentalità veramente “conciliare”, che metta tutti insieme, diventata presto un programma politico, o forse già lo era.

Come si deve leggere dunque il principio della gerarchizzazione delle verità? Siamo al punto di partenza. Ma questo evidenzia che, se non si fa una lettura vera e teologica, nel senso alto di questa parola, di questi principi-primi del Vaticano II, tutto il resto facilmente risulta falsato. Risulterebbe, pertanto, veramente utile per i fedeli e per i teologi, un documento (metafisico) dogmatico del Magistero, per spiegare la retta origine e la retta interpretazione di questi principi, così da orientare poi il Popolo di Dio e i maestri della fede in primis, in una lettura corretta del Concilio, facendo vedere, in modo autentico, che l’unica ermeneutica giusta, che porta frutti, è quella della continuità e del progresso nella verità dell’unica Traditio Ecclesiae. È vero che il Magistero si è già pronunciato per dirimere i vari errori di interpretazione attestatisi, talvolta, proprio sui temi a cui abbiamo fatto riferimento. Questo però ancora non risolve il problema, per il fatto che, col prevalere di una certa visione di “conciliarità”, facilmente si è passati, in larga parte, ad un “neo-conciliarismo”: ci si continua ad appellare al Concilio e si dimentica, scorrettamente appunto, che il Magistero non si è congelato col Concilio. Il Papa è al di sopra del Concilio e pertanto solo lui può indicare in modo definitivamente dirimente quale è la giusta ermeneutica del Vaticano II.

p. Serafino M. Lanzetta, FI

giovedì 20 gennaio 2011

Convegno di Roma sul Concilio. Don Florian Kolfhaus: Il magistero pastorale del Concilio Vaticano II

Il titolo completo della relazione di don Florian Kolfhaus è: "Insegnamento pastorale motivo fondamentale del Vaticano II. Ricerche su Unitatis redintegratio, Dignitatis humanae e Nostra aetate". Egli parte dalla considerazione che "Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Il cardinal Ratzinger già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile affermava che il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale". Tuttavia, proprio questo "concilio pastorale" – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato "come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili". Del resto, è ormai chiaro che molti difendono il carattere vincolante e il significato del Vaticano II - che non mancano -, ma solo pochi ricordano i venti concili dogmatici precedenti. È per questo che si registra una sorta di timore di un arretramento rispetto al Concilio e di una sua arbitraria svalutazione. Il nostro contesto e le nostre riflessioni non vogliono arrivare a questo, ma solo far luce sugli eventi, sulla loro portata e significato e su dove ci stanno portando...

In effetti, quello che finora è l’ultimo concilio può essere rettamente compreso solo se rimane inserito nel magistero vivo di tutti i precedenti. E tuttavia, è innegabile che esso non è riconducibile a nessun precedente. Su questo tutti possono convenire, sia pure da diverse posizioni e valutazioni. Nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; ma, ferma restando la sua legittimità ed autorità, la centralità della problematica che ne deriva sta nella tensione creata dal concetto di "Concilio pastorale" o di "Magistero pastorale", per effetto del nuovo tipo di concilio introdotto sul piano della prassi anziché su quello concettuale.

Non viene messo in discussione il carattere vincolante del Magistero, che esige consenso e obbedienza -sia pure non vincolante- anche quando non si tratta di dogmi, ma piuttosto il fatto se il Magistero, inteso come esercizio del "munus determinandi", sia riconoscibile in tutti i documenti. Don Kolfhaus così esprime il quesito: "Il Concilio non ha proclamato nessun nuovo dogma, ma ha forse esercitato un magistero paragonabile a quello del Papa nelle sue encicliche?", e così risponde: "Nei decreti e nelle dichiarazioni non si tratta dell’affermazione magisteriale di verità, bensì dell’agire pratico, cioè della pastorale come conseguenza della dottrina. Nella teologia manca un concetto per questo magistero pastorale […]. Non si può fare a meno di rimproverare a certi teologi "moderni" un atteggiamento conservatore, poiché essi non di rado guardano ai decreti e alle dichiarazioni del Vaticano II come a testi dogmatici, che definiscono "nuove" verità. Il Concilio stesso non voleva questo".

Ed è proprio questo il grande problema che deve essere affrontato e risolto. È ora ineludibile mettere ordine e delineare le diverse terminologie per fare, innanzitutto, un distinguo fra "magistero dottrinale", "magistero disciplinare", "magistero pastorale" e dunque definire il "Concilio pastorale", l’unico della Storia della Chiesa... Molto chiara la distinzione tra le diverse categorie di documenti, che ci riallaccia ai differenti "livelli" di mons. Gherardini. Insomma secondo la efficace sintesi di p. Lanzetta: "le principali dottrine del Vaticano II, quelle riguardanti il dialogo interreligioso, l’ecumenismo e la libertà religiosa, che sono poi quelle che hanno maggiormente catalizzato l’attenzione, non dovrebbero definirsi propriamente “dottrine” ma piuttosto “insegnamenti” (sono decreti e dichiarazioni) pastorali (come precisato dagli stessi padri conciliari) per i quali siamo ancora in ricerca di una categoria teologica per qualificarne il magistero, che sicuramente non è né dogmatico né disciplinare. Don Kolfhaus propone la qualifica di munus praedicandi: un insegnamento che, come ad esempio un’omelia, riguarda temi dottrinali, ma il tenore e la stessa proposizione sono di indirizzo eminentemente pastorale, vincolanti ma non infallibili".

Interessante la notazione iniziale, a braccio, che la scienza e anche la teologia si fa sine ira et studio, invece il problema del Concilio viene trattato cum ira et studio... Interessante anche notare che nella distinzione tra le differenti categorie di documenti possiamo cogliere una novità che non consente di considerare il Concilio come un blocco.

Di seguito il testo della Relazione:
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Recentemente ha preso avvio una nuova discussione sull’interpretazione del Concilio Vaticano II; oggetto del dibattito è fino a che punto i testi conciliari si collochino effettivamente nella continuità del Magistero. Lo stesso papa Benedetto, nell’ormai famoso discorso natalizio alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, ha affermato che il Concilio Vaticano II può essere adeguatamente compreso solo nel contesto dell’intera tradizione della Chiesa. Non ci fu alcuna “rivoluzione copernicana”, alcun nuovo inizio, alcuna rottura con tutto ciò che i papi e i concili precedenti avevano insegnato. Oggi si pone, tuttavia, la pressante domanda di come abbiano potuto svilupparsi, nella ricezione del Concilio, certe teologie (e non pochi dei loro autori ne fanno motivo di vanto) che rappresentano proprio un “nuovo inizio”, per superare le strette guide dogmatiche del Magistero. Sembrerà paradossale, ma uno dei motivi di questa rottura con la tradizione è una modalità del tutto “tradizionale” di lettura del Concilio Vaticano II come concilio dogmatico.

Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Il cardinal Ratzinger già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile affermava che «il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale». Tuttavia, proprio questo “concilio pastorale” – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato «come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili». Noi tutti lo constatiamo giorno per giorno: molti difendono il carattere vincolante e il significato del Vaticano II, che senza dubbio ci sono, ma solo pochi ricordano i venti concili dogmatici precedenti. In effetti, non mancano oggi forti richiami che mettono in guardia da un arretramento rispetto al Concilio e da una sua arbitraria svalutazione. Ciò è fuori discussione, non si tratta di questo. Al contrario: quello che finora è l’ultimo concilio può essere rettamente compreso solo se rimane inserito nel magistero vivo di tutti i precedenti. E d’altra parte, il Vaticano II è stato un concilio come mai ve ne erano stati prima. Questa affermazione troverà d’accordo tutti, per quanto differenti possano essere le valutazioni su di esso. Nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; e ciononostante il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità. Cosa significa, però, “ermeneutica della continuità”?

Un concilio come nessun altro prima

Il problema centrale, alla cui soluzione ho voluto fornire un modesto contributo con la mia tesi dottorale, è la tensione creata dal concetto di “concilio pastorale” o di magistero pastorale. Il Vaticano II ha introdotto, non sul piano concettuale, ma su quello della prassi, un nuovo tipo di concilio. Qui non è in discussione il carattere vincolante del Magistero, che, anche quando non si tratta di dogmi, ovvero di definizioni infallibili della dottrina rivelata, si pronuncia in questioni di fede e morale con autorità, cioè esigendo consenso o obbedienza. Si tratta piuttosto della questione se il Magistero – inteso almeno come esercizio del “munus determinandi” – sia affatto presente in tutti i documenti. Cosa significa, quindi, che un concilio si esprime in termini non dogmatici, ma pastorali o – per dirla con le parole del cardinal Ratzinger – «a un livello inferiore»?

Il Concilio non ha proclamato nessun nuovo dogma, ma ha forse esercitato un magistero paragonabile a quello del papa nelle sue encicliche? Certamente, nelle costituzioni viene esposta della dottrina (come ad esempio nella Lumen Gentium, in cui si afferma esplicitamente per la prima volta la sacramentalità dell’ordinazione episcopale), mentre nei decreti e nelle dichiarazioni non si tratta dell’affermazione magisteriale di verità, bensì dell’agire pratico, cioè della pastorale come conseguenza della dottrina. Nella teologia manca un concetto per questo magistero pastorale, e proprio questo conduce spesso alle interpretazioni del Concilio sopra menzionate. Non si può fare a meno di rimproverare a certi teologi “moderni” un atteggiamento conservatore, poiché essi non di rado guardano ai decreti e alle dichiarazioni del Vaticano II come a testi dogmatici, che definiscono “nuove” verità. Il Concilio stesso non voleva questo. Per esempio, a proposito della dichiarazione sul dialogo interreligioso, il 18 novembre 1964 il relatore del Segretariato per l’unità dei cristiani affermava nell’aula conciliare: «Per quanto concerne lo scopo della dichiarazione, il Segretariato non vuole emanare alcuna dichiarazione dogmatica sulle religioni non cristiane, bensì presentare norme pratiche e pastorali» (cfr. Acta Synodalia (AS) III/8. 644). Quanti teologi, invece, richiamandosi alla Nostra aetate, da questi principi miranti alla prassi del dialogo hanno elaborato una teologia delle religioni che vede nelle religioni non cristiane vie di salvezza autentiche e indipendenti da Cristo e dalla Chiesa? Quanto spesso si è sostenuto, citando la Unitatis Redintegratio, che il Vaticano II avrebbe rinunciato alla “pretesa di assolutezza” della Chiesa, la quale dovrebbe comprendersi finalmente come una tra molte chiese? Chi legge gli atti, resta sorpreso. Nel decreto sull’ecumenismo si dichiara espressamente che le sue asserzioni non toccano nel modo più assoluto la verità dell’assioma “Extra Ecclesiam nulla salus” (cfr. AS III/7. 32) e che non v’è alcun dubbio che solo la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo («Clare apparet identificatio Ecclesiae Christi cum Ecclesia catholica … dicitur … una et unica Dei Ecclesia» AS II/7. 17.)

Le intenzioni del Concilio Vaticano II

Nella comunicazione del segretario generale alla 123ª Congregazione Generale del 16 novembre 1964 si afferma che ci si trova davanti a dottrina rivelata “de rebus fidei et morum” solo quando ciò è definito esplicitamente. Tale dichiarazione [esplicita] non ha mai avuto luogo. Per tutte le altre asserzioni sono determinanti l’oggetto trattato (“subiecta materia”), le regole classiche dell’interpretazione teologica (“ratio secundum normas interpretationis theologicae”) e l’intenzione del Santo Sinodo, la “mens Sanctae Synodi”. Proprio su quest’ultima vale la pena di soffermarsi con più attenzione. Gli atti pubblicati riportano un’immagine chiara di come l’intenzione pastorale dei Padri si è sviluppata lentamente e con fatica. Non di rado, tuttavia, e precisamente nella rappresentazione del Concilio di Giuseppe Alberigo, si trasmette l’impressione che Giovanni XXIII avesse fin dall’inizio – per di più contro la resistenza della Curia Romana – stabilito una chiara rotta pastorale del Concilio, la quale potrebbe riassumersi nella sfuggente parola d’ordine “aggiornamento”, che del resto il Papa aveva utilizzato non per il Concilio, ma per la riforma del Codice. Così però si fa finta di non vedere che Giovanni XXIII volle e approvò gli schemi preparati dalla curia. Le sue stesse direttive su cosa dovesse intendersi per “pastorale” non erano univoche. All’inizio del Concilio, ad esempio, egli pose l’accento sulla chiara presentazione della dottrina e diede alla Chiesa come “intenzione del Santo Padre” per l’ottobre 1962 la preghiera che il “magistero infallibile del Concilio” potesse difendere efficacemente la fede contro pericoli ed errori. Lo speciale “carattere pastorale” del Vaticano II rappresentò anche per i Padri conciliari una novità. Questo nuovo “stile” si manifesta anzitutto nel desiderio di comporre dei testi in una lingua facilmente comprensibile e di argomentare biblicamente. Non si volevano né definizioni da teologia di scuola, prima, né definizioni magisteriali, in seguito; tuttavia la dottrina cattolica doveva essere ovviamente presente e determinante sempre e in tutti i testi. I Padri adunati per il Concilio avevano tutti i manuali scolastici dei loro anni di studio in testa (o almeno nella cartella portadocumenti dei loro consulenti teologici). Questa dottrina essi non volevano cambiare, ma esporre più chiaramente. Chi conosce a memoria le risposte del catechismo può usare con la coscienza tranquilla immagini ed espressioni nuove, quando si tratta di utilizzare la dottrina cattolica nella pratica e in un modo conforme ai tempi. La pastorale poggia sulla dottrina, la prassi presuppone la retta dottrina. Il rovesciamento di questo ordine porta troppo facilmente a far sì che con “una nuova realtà pastorale” si sviluppi una “nuova” dottrina. Esempi di ciò ve ne sono in abbondanza nella vita quotidiana delle comunità ecclesiali. Questo vale anche per molti teologi che – sorridendo delle semplici verità del catechismo – considerano le affermazioni pastorali conciliari alla stregua di asserti dottrinali, per poi sviluppare di qui nuove posizioni (personali).

Differenti categorie di documenti

Il Vaticano II, in contrasto con i due concili precedenti, utilizza tre diverse categorie di documenti (costituzioni, decreti, dichiarazioni), per ponderare in tal modo il suo discorso. Questa evidente realtà spesso non viene presa in considerazione. Accanto alla “Lumen Gentium”, la costituzione sulla Chiesa e il documento dottrinale centrale del Concilio, si trova la costituzione sulla divina rivelazione “Dei Verbum”. Altri documenti, vale a dire decreti e dichiarazioni, come “Unitatis Redintegratio” sull’ecumenismo, “Nostra Aetate” sulle religioni non cristiane e “Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa, non sono né documenti dottrinali in cui si definiscono verità infallibili, né testi disciplinari che presentano norme concrete. Queste vengono di regola rinviate ai direttori che dovrebbero essere redatti dopo il Concilio. Decreti e dichiarazioni non sono allora, detto molto in generale, né dottrina né disciplina. In questo sta la grande novità del Vaticano II: contrariamente a tutti gli altri concili, che esponevano dottrina o disciplina, esso supera queste categorie. Si tratta di un insegnamento, che non vuole tuttavia dare definizioni o delimitazioni in funzione contraria a degli errori, ma è rivolta all’agire pratico condizionato dal tempo. Questo avviene senza che si emanino concrete norme disciplinari. La teologia finora non ha a disposizione alcun concetto appropriato per questa nuova forma di Magistero pastorale. Un errore ampiamente diffuso nell’interpretazione del Concilio consiste proprio nel leggere decreti e dichiarazioni sullo stesso piano delle costituzioni del Vaticano II – quindi come documenti dottrinali. Che questo non possa essere vero lo mostra già uno sguardo attento alle categorie dei documenti. Così può sembrare provocatoria la constatazione oggettiva che “Unitatis Redintegratio” detiene la stessa qualifica formale del decreto sui mezzi di comunicazione sociale “Inter mirifica”. A entrambi i testi si dovrebbe perciò addire la medesima qualifica formale. Ma nessuno presume che “Inter mirifica” sia un testo dogmatico! Qui si tratta di prassi, non di dottrina. Senza dubbio il dialogo ecumenico è una sfida più importante della rapida crescita dei mezzi di comunicazione sociale. Entrambi i temi sono svolti all’interno della stessa categoria di documenti; non perché siano ugualmente significativi, ma perché ad essi è comune l’orientamento alla prassi. Nei due documenti non si tratta di una dottrina nuova, bensì di una prassi nuova, o meglio, rinnovata. La differenza tra le affermazioni dottrinali e quelle orientate alla prassi è sostanziale, poiché le seconde poggiano sulle prime e non possono porsi in contrasto con queste, se realmente vogliono essere una pastorale cattolica. Questa distinzione tra dottrina immutabile e agire conforme ai tempi si riferisce alla questione di cosa sia dunque un concilio pastorale in ultima analisi. Anche i Padri conciliari si trovarono a confrontarsi con questo importante punto, come vorrei mostrare nell’esempio seguente tratto dai documenti.

Cambiamento della “legge fondamentale” o riforma del “regolamento”?

Il fatto che in Gran Bretagna si guidi a sinistra non si trova nella costituzione inglese e potrebbe essere facile, da un punto di vista giuridico, adattare questa regola alla prassi europea continentale – anche se il cambiamento potrebbe costare fatica e provocare alcuni incidenti. Modificare le regole di circolazione – norme pratiche – non significa in alcun modo intaccare la costituzione e i valori fondamentali in essa ancorati. Se si applica questo paragone al Concilio – le disposizioni costituzionali starebbero in questo caso per le verità dogmatiche e i principi di diritto naturale – può suonare provocatorio considerare i grandi temi del Vaticano II al livello della circolazione stradale. Tuttavia, proprio questo esempio impiega il vescovo De Smedt in uno dei suoi ultimi discorsi relativi alla dichiarazione sulla libertà religiosa. Egli vuole rendere chiaro che la “libertà civile dall’obbligo statale”, della quale il Concilio parla, non collide con la dottrina tradizionale, poiché non si tratta di una “discussione costituzionale”. “Tanto poco le regole di circolazione dispensano dal dovere morale, di muoversi con intelligenza e attenzione sulle strade, quanto poco la protezione giuridica della libertà religiosa solleva gli uomini dagli obblighi della “legge morale oggettiva” e, se sono cattolici, dalle leggi della Chiesa (AS IV/5. 100.). Altrove De Smedt parla ancor più chiaramente di tale “legge morale oggettiva”, che non viene toccata dalla “nuova” prassi della libertà religiosa: «È certo che nell’ordine morale tutti gli uomini, tutte le società e ogni autorità civile sono obbligati a cercare la verità e non è loro consentito di difendere il falso. Valga il dovere morale di tutti gli uomini nei confronti della Chiesa di approvare le sue dottrine e i suoi comandamenti. Nessuna istanza umana possiede una libertà di scelta morale oggettiva nell’approvazione o nel rifiuto del Vangelo e della vera Chiesa. Ad una più attenta osservazione anche questo obbligo è soggettivo» (AS IV/1. 433). Naturalmente, una “nuova” prassi pone anche nuove domande alla dottrina. A queste domande la “Dignitatis Humanae” non vuole però rispondere, ma le affida – così dice espressamente De Smedt il 21 settembre 1965 - «al Magistero ordinario della Chiesa».

Non infallibile, ma nemmeno non vincolante

A questo punto appare necessario occuparsi più approfonditamente della già menzionata questione della peculiarità di un magistero pastorale. Nella scolastica si è parlato di due forme di magistero. Partendo dall’autorità di colui che ammaestra Tommaso d’Aquino conosce il “magisterium cathedrae pastoralis” del vescovo e il “magisterium cathedrae magistralis” del teologo. Oggi si intende per magistero esclusivamente quello dei vescovi e del papa. Il vescovo per la sua diocesi, il papa e il collegio dei vescovi riunito sotto di lui per la Chiesa universale, sono portatori di questo magistero nel senso in cui il termine viene oggi utilizzato. I concetti finora disponibili per la qualificazione dei testi dottrinali sono in parte sorprendentemente recenti: nel 1835 Gregorio XVI impiega per la prima volta in “Commissum divinitus” il concetto di “magisterium” in un documento dottrinale, laddove egli parla di una “potestas magisterii” accanto ad una “potestas regiminis”. Egli fu anche il primo ad utilizzare la forma dell’enciclica per l’esercizio del suo magistero. Nel 1964, nella “Lumen Gentium”, appare per la prima volta nell’uso del magistero l’espressione “munus docendi”. Entrambi i concetti – “magisterium” e “munus docendi” - si pongono in stretta relazione ma, nonostante siano frequentemente utilizzati come sinonimi, non sono equivalenti. “Munus docendi” designa – generalizzando e semplificando – l’insegnamento vincolante a carattere dottrinale da parte della legittima autorità e l’annuncio del Vangelo da parte dei ministri ordinati ed autorizzati grazie alla “missio canonica”; “magisterium” – come parte del “munus docendi” – punta invece alla definizione di problemi dottrinali, normalmente come chiarimento autorevole di questioni controverse.

Poiché la distinzione effettuata nei concili precedenti tra affermazioni dottrinali e disciplinari non è appropriata per il carattere peculiare del Vaticano II, risulta che per la terminologia della teologia, la quale distingue tra asserzioni dottrinali infallibili e non infallibili, deve essere trovata una ulteriore categoria. Su tale questione il Concilio stesso tace. Accanto ad asserzioni dottrinali che vogliono difendere e mettere in chiaro delle verità, troviamo nel Vaticano II e in seguito ad esso asserzioni dottrinali che vogliono motivare una determinata pastorale e regolare una prassi. Bisogna poi ricordare che il Concilio non rinuncia in linea di massima all’esercizio del magistero, ma lo fa in un modo nuovo. Davanti a questo sfondo si concretizza la domanda sulla forma magisteriale dei documenti e sulla gradazione, o meglio, sull’intenzione con cui questi sono stati prodotti.
Manca, come già si è detto, il concetto per un “magistero pastorale”. Così resta difficile dire cosa sia realmente un concilio pastorale. È necessario, però, distinguere tra “dottrinale” e “pastorale”. Ugualmente, “pastorale” non può essere messo sullo stesso piano di “disciplinare”, dato che non si tratta semplicemente di norme concrete di natura giuridica. Queste, infatti, sono state consapevolmente delegate dai Padri a specifici direttori che dovevano essere realizzati solo dopo la chiusura dell’assemblea ecclesiale. Se un magistero pastorale non è né dottrinale né disciplinare, che cosa è dunque?
In un’enciclica papale, in una buona omelia domenicale, nelle parole di incoraggiamento ben ponderate dopo una confessione viene ogni volta annunciata la fede cattolica, e tuttavia con modalità e scopi molto differenti. Se nel primo caso si tratta anzitutto di chiarire questioni dottrinali, gli altri due momenti sono interamente orientati alla pastorale. Tutt’altro che non vincolanti, l’omelia e le parole di incoraggiamento vogliono muovere a un determinato agire – a una vita “nuova” secondo la fede. Perché tale annuncio abbia un buon esito, esso deve prendere in considerazione il tempo e il luogo, la formazione e l’età, la maturità spirituale e l’apertura religiosa dei destinatari. Pastorale significa “tradurre” la dottrina in prassi – non apportare modifiche alla dottrina. Per essere chiari, torniamo ancora una volta al decreto sull’ecumenismo. I Padri non volevano pronunciare alcuna definizione di dialogo ecumenico, perché erano coscienti che questa prassi pastorale può e, se vuole essere efficace, deve assumere forme molto diverse. Essi hanno chiaramente messo da parte le questioni dottrinali, a cui “Unitatis Redintegratio” per l’appunto non doveva rispondere: il decreto tace esplicitamente sulla controversia riguardo all’appartenenza alla Chiesa, sul problema della bona fides, sulla chiara valutazione di quali comunità al di fuori della Chiesa cattolica siano Chiesa in senso teologico, sul tema della definizione del rapporto tra Scrittura e Magistero, sulla descrizione dettagliata del primato papale come su una rappresentazione differenziata delle diversità dogmatiche tra cattolici e ortodossi (AS III/7. 675ss.).

Una nuova pastorale pienamente inserita nella tradizione

Il Concilio non ha proclamato alcun “nuovo” dogma e non ha revocato alcuna “vecchia” dottrina, ma piuttosto ha fondato e promosso una nuova prassi nella Chiesa. Naturalmente alla domanda sulla natura di un concilio pastorale se ne collegano altre, che richiedono un più preciso chiarimento relativamente a dottrina e prassi: la pastorale è soltanto una tecnica di comunicazione della dottrina o pone anche delle domande al Magistero? Il Vaticano II con il suo “essere un concilio diverso” ha effettivamente creato una nuova forma di magistero? Otto Hermann Pesch dice in modo provocatorio e, senza dubbio, troppo esagerato: «non si è ancora riflettuto abbastanza su forme e condizioni attraverso cui la Chiesa possa fare anche in futuro quel che essa ha fatto per la prima volta con molto coraggio nel Concilio: parlare in forma temporanea, provvisoriamente, con la prospettiva di un superamento, e fare questo con piena coscienza, per propria ammissione» (Das Zweite Vatikanische Konzil, 379). Dichiarare una dottrina, anche quando essa non riveste un carattere di infallibilità, suscita l’esigenza che essa sia fidata, vera e valida. Questo vale a maggior ragione per affermazioni dottrinali definite solennemente: i dogmi non sono “provvisori, superabili, temporanei”; risposte a urgenti problemi del momento orientate alla prassi devono essere date volta per volta, per essere adatte alla situazione politica, sociale e culturale. Nel rispondere poi a tali questioni non si tratta di mettere in gioco dottrina e prassi l’una contro l’altra, di intendere “pastorale” come sinonimo di “non vincolante” o di “discrezionale” e di vedere la cura d’anime costantemente in conflitto con il Magistero. Il Vaticano II voleva salvaguardare la dottrina e rinnovare la cura pastorale. Sarebbe richiesto di colmare finalmente questa lacuna nell’apparato concettuale della teologia che si è aperta dal Vaticano II in poi. La mia proposta sarebbe – e questo non può essere niente più che un modesto contributo ancora da discutere – di denominare la sfuggente espressione di magistero pastorale “munus predicandi”, ben delimitata rispetto al “munus determinandi”. Si tratta, infatti, di un “munus” cioè dell’insegnamento della legittima autorità, e “predicare” non significa per niente che detto insegnamento non sia vincolante, ma richiama il fatto che l’omelia è il luogo privilegiato di esporre la dottrina cattolica già definita e di applicarla per la vita concreta per la vita dei fedeli. Questo significa: Annuncio del Vangelo ed insegnamento della dottrina, non definizione dottrinale; legato al tempo e conforme al tempo, non immutabile e non sempre uguale; vincolante, ma non infallibile. Il Concilio, almeno nei suoi decreti e dichiarazioni, non vuole esporre dottrina, e men che meno cambiare la dottrina trasmessa. Con elementi della dottrina cattolica – così come era e così come rimmarrà – il Vaticano II insegna la fede e le nuove direttive pastorali derivante da essa.

Nessuno può negare le tensioni di questo magistero pastorale. Purtroppo non mancano teologi che con il cambiamento della prassi fondano una rottura con la dottrina tradizionale. Forse i Padri conciliari furono sotto certi aspetti troppo ottimisti quando rinunciarono a definizioni dottrinali e condanne solenni, volendo tuttavia conservare e difendere il dogma. Della loro intenzione di fare ciò, non c’è peraltro da dubitare. In questo senso Paolo VI, nella seduta di approvazione dei due documenti conciliari sulla Chiesa “Lumen gentium” e sull’ecumenismo “Unitatis Redintegratio” ha affermato: «Questo sembra essere il più significativo commento alla promulgazione di questi documenti; quanto Cristo ha voluto, lo vogliamo anche noi. Quel che era, tale rimane. Quel che la Chiesa ha insegnato nel corso dei secoli, proprio questo insegnamo anche noi» (AS III/8 911.).

Cfr. anche: Florian Kolfhaus: Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, “Dignitatis Humanae” und “Nostra Aetate”. Münster 2010. LIT-Verlag. ISBN: 978-3-634-10628-5. Si tratta della prima pubblicazione della nuova collana di tesi dottorali prodotte a Roma: “Theologia Mundi ex Urbe”.